la Repubblica, 14 gennaio 2018
Quei conti bucati che affondano il progetto del Milan cinese
MILANO Il progetto del Milan cinese, fragile creatura partorita dai 740 milioni di euro che nell’aprile scorso il misterioso Yonghong Li si impegnò a fare confluire nelle casse della Fininvest, a soli 9 mesi dal travagliato accordo è già a rischio di fallimento. Ma il vero nodo non è la notizia, pubblicata ieri dalla Stampa e dal Secolo XIX, dell’inchiesta che la procura di Milano avrebbe aperto sulla compravendita, adombrando una possibile operazione di riciclaggio. Il nodo sono i problemi economici del suo successore cinese, atteso da scadenze incombenti e da un bivio ineludibile: o le sue garanzie patrimoniali, fin qui fumose, si fanno improvvisamente consistenti oppure Elliott, il fondo statunitense che ha prestato a Li i soldi necessari per portare a termine l’affare, può diventare il padrone del Milan con soli 303 milioni di esborso, per poi rivenderlo.
Il procuratore capo Francesco Greco ha smorzato il caso giudiziario: «Allo stato non esistono fascicoli sulla compravendita del Milan, durante la quale l’avvocato Ghedini si preparava alla segnalazione in procura, se i soldi dai cinesi non fossero arrivati. Quando l’Unità di Informazione Finanziaria ha dato semaforo verde, le banche (Intesa e Rotschild, ndr) hanno dato l’ok e Ghedini ha deciso di non fare segnalazioni». Il legale di Berlusconi ha attaccato: «Reagiremo alle falsità». E Marina Berlusconi, presidente di Fininvest, ha lanciato l’accusa: «Sono due quotidiani controllati dal gruppo De Benedetti, in piena campagna elettorale.
L’antiberlusconismo acceca ancora fino a questo punto?». La replica della Stampa è perentoria: «La veridicità della notizia ci è stata confermata da due fonti».
Un cda cruciale
Ma non dipendono certo da ragioni politiche le perplessità del mondo economico sull’imprenditore in tee-shirt residente a Hong Kong, 49 anni a settembre e un patrimonio mai davvero accertato. L’Uefa ha bocciato prima di Natale, proprio per l’assenza di garanzie finanziarie su Li, il voluntary agreement, il piano di rientro nei parametri del fair-play finanziario presentato dal club.
Sono palesi le difficoltà nella gestione del debito col fondo statunitense Elliott, che scade a ottobre, quando Li dovrebbe restituire una cifra altissima: 383 milioni, frutto dei pesanti interessi sul prestito di 303 milioni. La scabrosa situazione rischia sia di allontanare i potenziali compratori, a cominciare dal fondo arabo che da settimane è alla finestra, sia di scoraggiare gli altri fondi (scaduta l’esclusiva di Highbridge, si discute con Jefferies) interessati a sostituirsi a Elliott nel rifinanziamento del debito.
È quest’ultima la soluzione caldeggiata dall’Ad Marco Fassone, che intanto deve affrontare un passaggio delicato: martedì prossimo il Cda esaminerà la sua richiesta di rinviare l’ultimo aumento di capitale di 16 milioni, fissato entro febbraio. Formalmente è perché i conti del Milan sarebbero in attivo, grazie a incassi da stadio e da diritti tv superiori alle attese. Ma suona come un campanello d’allarme la richiesta di prendere tempo per un esborso così modesto, a fronte dell’impegno di 740 milioni per acquistare il club e dei 200 investiti nella campagna acquisti, con un deficit per il periodo luglio 2017-giugno 2018 già stimato in 150 milioni.
Troppi misteri in Cina
Elliott vigila sul rispetto delle scadenze intermedie.Indiscrezioni ipotizzano che Li, anche se rinviasse l’aumento di capitale, potrebbe dovere sborsare entro giugno altri 80 milioni: i 50 che Elliott avrebbe facoltà di richiedere a garanzia del debito e i 30 che la proprietà cinese aveva assicurato di potere ricavare dal mercato locale. Il punto più delicato resta il mistero attorno alla figura di Li in patria. Se le sue apparizioni in Italia sono state soltanto 3, al riparo da scomode domande dei media, l’immobilismo sul mercato cinese è singolare.
Sull’attività di Milan China, società creata ad hoc, Repubblica ha raccolto indizi poco rassicuranti.
L’8 dicembre il Milan ha pubblicato sul sito Sports Recruitement un annuncio per reclutare il direttore commerciale di Milan China a Pechino o Shanghai. È valido fino al 31 marzo ed è ancora sul web: se ne evince che sia ancora vacante il ruolo chiave di un settore “strategico per lo sviluppo dei piani aziendali”. Gli sponsor locali, per ora, scarseggiano. L’acqua minerale Alpenwater è rara nei supermercati della Cina ed è stato appena annunciato l’accordo con Vwin, “top brand di scommesse online in Asia e regional partner”. La precisazione non pare casuale: regionale e non cinese, perché in Cina le scommesse sono regolamentate con severità proverbiale. Inoltre sembra fermo il progetto con la China Next Generation Education Foundation. Secondo la lettera d’intenti, firmata in luglio, il club si dovrebbe occupare della formazione nelle scuole calcio di Pechino, Shanghai, Shanxi e Jilin, ma attualmente non ha alcuna accademia in Cina. Infine è bloccato il piano per le cittadelle dello sport, presentato con corposo opuscolo sul web, e l’annesso progetto degli store è stato soffiato al Milan, troppo attendista, dall’Inter targata Suning.
La promessa disattesa
L’Uefa a marzo dovrebbe vincolare il Milan a un duro settlement agreement, il patteggiamento delle sanzioni sportive per il mancato rispetto del fair-play finanziario.
Berlusconi assicurò di avere lasciato il club in buone mani, dopo la sofferta transazione che ha rimesso in ordine i conti di Fininvest, durata oltre un anno e passata attraverso ben tre caparre da 100 milioni l’una (transitate da paradisi fiscali) e il prestito di 303 milioni a un altissimo tasso d’interesse da parte del fondo americano Elliott, che a ottobre potrà appunto prendersi la società, se Li non li restituirà con i suddetti interessi. Gli analisti finanziari internazionali giudicarono incongruo il costo di 740 milioni, rispetto al vero valore del Milan, stimato in 450 milioni al massimo, debiti con le banche inclusi. Erano stati ancora più increduli nel 2015, di fronte all’offerta dell’imprenditore tailandese Bee Taechaubol: 480 milioni a Fininvest per essere azionista di minoranza al 48%, valutazione complessiva di un miliardo, fuori mercato anche in caso di quotazione sulla borsa di Hong Kong. Ma quell’operazione saltò anche per i guai giudiziari dell’advisor Tax & Finance di Lugano. Spuntarono la cordata cino-americana di Galatioto e Gancikoff, che scelse Fassone come Ad in pectore, e poi quella di Yonghong. La versione ufficiale vuole che Li sia rimasto senza soci per la stretta del governo di Pechino sull’esportazione dei capitali e che abbia dovuto fare ricorso al maxi-prestito di Elliott. Ma il New York Times, a novembre, scrisse che Li ha un patrimonio oscuro e non possiede alcuna miniera di fosfati. Adesso il bivio è anche per la promessa di Berlusconi. È questo il guaio in campagna elettorale, per chi continua a fare del calcio uno strumento di consenso e tenta di dettare al riluttante Gattuso la formazione del Milan.