Corriere della Sera, 15 gennaio 2018
Inflazione di lusso
Domani sapremo quanto è cresciuta l’inflazione il mese scorso e sarà il solito piccolo numero: giusto 1,2% in più rispetto a un anno prima, prezzi apparentemente quasi fermi. Non sarebbe una novità. In tre degli ultimi cinque anni i listini per i consumatori registrano aumenti pari zero o al di sotto. Né l’Italia in questo sembra un’anomalia, perché nel resto d’Europa la situazione si presenta simile: dal 2009 l’inflazione dell’area euro è scesa tre volte sottozero – l’ultima nella primavera del 2016 – mentre anche oggi gli aumenti annuali viaggiano in media all’1,4%. Non doveva andare così, non in teoria. L’Italia sta entrando nel quinto anno di ripresa e l’area euro nel sesto. In questo periodo il Paese ha prodotto un milione di posti di lavoro in più e l’unione monetaria dieci milioni, in entrambi i casi a livelli mai visti da decenni. Negli ultimi tre anni poi la Banca centrale europea ha iniziato a creare e immettere nel sistema, acquistando titoli pubblici e privati, almeno 2.286 miliardi di euro supplementari: con tutto questo «quantitative easing» il denaro in circolazione è aumentato molto più dei beni o dei servizi che quello potrebbe comprare e sarebbe ormai sarebbe solo logico se i prezzi iniziassero a salire in fretta. Anche perché le banche centrali degli Stati Uniti, del Giappone e della Gran Bretagna in questi anni si sono impegnate come o più della Bce, iniettando nel complesso 18 mila miliardi di dollari nell’economia mondiale.
Post crisiÈ stato un elettroshock eppure, secondo gli uffici statistici, i prezzi rispondono appena. Restano quasi fermi. Chi pensa che ci sia sotto qualcosa di strano dovrebbe forse dare un’occhiata a un indice diverso, quello della borsa di Chanel. La conosciamo tutti. Un oggetto del desiderio. Una di quelle borse da donna fabbricate in Italia o in Francia, fatta di pelle nera cucita in trapunta: per esempio la Chanel Reissue 2.55 taglia 277. Quando l’America toccava il fondo della crisi e la Federal Reserve avviava il «quantitative easing» nel 2009, costava 3.095 dollari. Cinque anni dopo era raddoppiata a 6.000 dollari, mentre da novembre scorso si vende in negozio a 6.400: equivale a un’inflazione da 11,8% l’anno, più o meno quella che l’Italia aveva in uscita dal secondo choc petrolifero.
La borsa da donna di Chanel naturalmente non è un caso isolato, ma l’emblema di una storia parallela: l’inflazione dell’«uno per cento» – la dinamica di prezzo dei prodotti comprati dal piccolo gruppo di coloro che guadagnano di più e hanno i patrimoni più elevati della società in Italia, in Europa e nell’Occidente – segue una logica diversa. Su di loro l’elettroshock delle banche centrali ha funzionato in pieno. Nel paniere dell’Istat, l’istituto statistico italiano, dal 2010 la gioielleria è rincarata del 41,7% (4,6% l’anno) mentre l’indice generale da allora è salito di 1,08%. La borsa da donna Hermès Birkin dal fondo della Grande recessione è aumentata del 14,2% l’anno.
Anche in altri oggetti ricercati dai più ricchi gli andamenti recenti sono simili. L’indice K500 delle auto d’epoca mostra che una Ferrari dei vintage 1958-1973 in media è più che raddoppiata di prezzo negli ultimi nove anni. Quanto ai vini di lusso, l’indice Liv-ex Fine Wine 100 (le quotazioni di un paniere dei cento migliori marchi, quasi tutti francesi e italiani) è salito del 16% all’anno da fine 2015. Persino in settori tutt’altro che di lusso, ma tipici dei ceti medio-alti, l’inflazione è più alta che nella media: dal 2010, secondo Istat, la voce «autocaravan, caravan e rimorchi» è rincarata quasi il triplo dell’inflazione generale; persino i «pacchetti vacanza internazionali» sono saliti una volta e mezza.
Peso zeroQueste però sono eccezioni, perché per lo più l’inflazione dei ricchi non si vede. Non entra negli indici generali come quelli di Istat o dell’agenzia europea Eurostat. Pesa zero. I banchieri centrali non ne tengono dunque conto quando decidono se tenere i tassi a zero o prolungare il «quantitative easing». Esiste una ragione tecnica che esclude quei prodotti dai panieri, perché questi ultimi sono composti di beni e servizi comprati dalle maggioranze dei ceti medio e medio-bassi del «novantanove per cento»: fra le borse da donna il paniere non include una Chanel venduto in centinaia di pezzi singoli, ma magari un modello da 70 euro comprato da milioni di donne italiane ed europee. Su quegli oggetti di lusso grava il sospetto di servire anche come beni d’investimento, ma lo sono proprio perché rincarano. E lo fanno più dell’inflazione generale, proprio perché l’uscita dalla Grande recessione ha fatto deflagrare le diseguaglianze. Secondo Goldman Sachs dall’inizio della ripresa l’America è cresciuta del 18% – l’espansione più debole del dopoguerra – ma gli utili delle società quotate a Wall Street sono esplosi al livello record del 129%. Nell’area euro la crescita Pil dal 2009 è stata del 16%, ma gli utili imprese in Borsa sono saliti più del doppio. Hanno vinto gli azionisti, hanno perso i lavoratori. E i 20 mila miliardi di dollari del «quantitative easing» delle banche centrali hanno fatto il resto: offrendo liquidità per un un aumento del 263% del principale indice di New York (e del 99% dell’Eurostoxx 50) ha sì salvato l’economia mondiale. Ma ha anche affollato lo store di Chanel in centro città.