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 2018  gennaio 14 Domenica calendario

Ideò la strage di Mississippi Burning. Morto in cella il capo del Ku Klux Klan

«Qui siamo al confine. Dieci miglia da Memphis e milioni di miglia dal resto del mondo. Ora, se uno sceriffo di queste contee dice che “è andata così”… Vangelo, è andata così». Ci sono frasi da film che entrano nella storia, perfino nella coscienza di un popolo. Questa è una di quelle. Le parole dell’agente Fbi Rupert Anderson, alias Gene Hackman in «Mississippi Burning-Le radici dell’odio», raccontano l’America del profondo sud da cui veniva Edgar Ray Killen, il detenuto morto giovedì a 92 anni nel penitenziario di Parchman, Mississippi. 
Non era un vecchietto qualunque: fu lui, nel 1964, a reclutare e organizzare lo squadrone della morte del Ku Klux Klan che con la complicità del vice-sceriffo locale uccise tre giovani attivisti per i diritti civili, due bianchi e un nero. Un omicidio brutale che sconvolse gli Stati Uniti, accelerò l’approvazione del Civil Right Act contro la segregazione razziale e fu poi magistralmente rievocato nel 1988 dal regista Alan Parker nel film da Oscar.
Edgar Ray Killen stava scontando, dal 2005, una condanna a sessant’anni di carcere. Non si era mai pentito delle sue idee razziste e di quel triplice assassinio che pianificò in ogni dettaglio, ad appena tre chilometri da casa sua, anche se non vi prese direttamente parte. 
Si definiva un prigioniero politico e al processo d’appello sostenne che nessuna giuria formata da suoi coetanei lo avrebbe mai ritenuto colpevole.
I tempi cambiano. A dispetto del sindaco (cinematografico) di «Mississippi Burning» che dice «noi abbiamo due culture quaggiù: la cultura bianca e la cultura di colore. E così, cari miei, è sempre stato, e così sempre sarà».
Mississippi Burning (MIBURN) era il nome in codice dato dall’Fbi all’indagine che portò soltanto quarantun anni dopo i fatti alla condanna di Ray Killen. Le giovani vittime dell’imboscata – Michael Schwerner, James Chaney, Andrew Goodman – erano membri del Congresso per l’uguaglianza razziale, che in quella calda estate del 1964 lanciò la campagna «Mississippi Summer Project». Centinaia di volontari in età da college si diressero nello «stato più totalitario degli Usa» per convincere gli afroamericani a «liberarsi» e iscriversi ai registri elettorali. 
Sam Bowers, il Mago imperiale dei Cavalieri bianchi del Klu Klux Klan del Mississippi, ordinò agli adepti della contea di Neshoba che era ora di «attivare il piano 4». Prevedeva «l’eliminazione» del bianco Michael Schwerner, soprannominato il «ragazzo-ebreo». Edgar Ray Killen era il «Keagle» (k-aquila), una sorta di commissario politico del Klan, incaricato di portare a termine la missione.
Fondamentale fu la complicità delle autorità locali. I tre attivisti vennero arrestati dopo la visita ad una chiesa bruciata dai razzisti. Rilasciati nella notte del 21 giugno, caddero in un’imboscata del Kkk, preavvertito dall’ufficio dello sceriffo. Di loro non si seppe più niente per giorni, i loro corpi crivellati di colpi (il nero pestato anche a sangue) furono ritrovati soltanto dopo sei settimane, sepolti in un terrapieno. 
A Washington, quell’anno, era ministro della Giustizia Robert Kennedy, fratello del presidente assassinato che fu poi a sua volta ucciso. Ordinò al capo dell’Fbi, John Edgar Hoover di inviare sul posto una squadra investigativa; a guidarla era l’ex sceriffo John Proctor, l’agente cui si ispirò poi Gene Hackman. 
Diciotto uomini finirono a giudizio nel 1967, compreso Ray Killen. Soltanto sette furono però condannati, per reati minori, con pene non superiori a sei anni. 
Tutti i giurati erano bianchi e uno si rifiutò di condannare Ray Killen, perché era un predicatore battista. Il suo giudizio restò in sospeso. 
Trentotto anni dopo, il processo si riaprì presso la corte di Filadelfia e l’ex «k-aquila», ormai ottuagenario, fu condannato a tre pene di 20 anni da scontare consecutivamente per omicidio preterintenzionale e violazione dei diritti civili. 
Venne portato via dall’aula in sedia a rotelle, da allora si era sempre rifiutato di parlare del caso.