La Stampa, 14 gennaio 2018
Primavera di Praga l’impossibile libertà. Con l’ascesa al potere di Dubcek, 50 anni fa, sembrò che un sogno si avverasse in Cecoslovacchia
Era timido, comunista, balbettava anche un po’, ma parlava perfettamente russo. Sapeva sorridere. Mai aveva criticato il Patto di Varsavia, mai aveva avuto tentazioni di vago sapore capitalista. Quando venne eletto alla testa del Partito comunista cecoslovacco, nessuno si sarebbe aspettato che quel giovane leader era destinato a diventare un’icona della Storia, l’etichetta della denuncia permanente di un sistema, un tarlo destinato a rodere nel lungo periodo il monolite sovietico.
Era il 5 gennaio 1968 quando Alexander – Sasha – Dubcek arrivò al vertice del partito con la benedizione di Mosca. Aveva 47 anni. Cominciava così la «Primavera». Meno di otto mesi dopo i tank di Mosca entravano nella meravigliosa capitale boema, spegnendo il sorriso di Dubcek e del suo popolo. «Attorno all’Europa si ergono i confini del silenzio», avrebbe scritto l’esule Milan Kundera nel suo libro più celebrato, L’insostenibile leggerezza dell’essere. E, come ha detto nei giorni scorsi Karel Schwarzenberg, veterano dell’emigrazione, «ci fu chiaro allora che un comunismo riformabile era illusione e sogno. L’Occidente invece lo capì molto dopo».
Il mondo diviso in blocchi
Ma non è solo un problema di comprensione: il mondo era allora rigidamente diviso in blocchi, gli Stati Uniti erano impegnati in Vietnam, che proprio nel ’68 era diventato l’argomento principale di denuncia anti-americana, soprattutto nelle contestazioni studentesche. La protesta del presidente Johnson fu rituale, ma poco più.
A Mosca la breve stagione del disgelo di Krusciov con la denuncia dei crimini staliniani si era già conclusa quando quel vento arrivò anche a Praga. Era la fine del ’67, gli studenti scendevano piazza, la vecchia direzione del Partito cecoslovacco affogava nell’impotenza.
Dubcek era considerato affidabile da Breznev. Mai il nuovo segretario del partito aveva messo in discussione il ruolo guida dei sovietici. Eppure nel giro di pochi giorni si installò in Cecoslovacchia un clima fino ad allora inimmaginabile. Heda Margolius Kovály ha raccontato da testimone quei momenti nell’emozionante memoria pubblicata da Adelphi con il titolo Sotto una stella crudele. Leggiamo: «La primavera del ’68 ebbe l’intensità, l’ansia e l’irrealtà di un sogno avverato. La gente si riversava nelle stradine della Città Vecchia e nei cortili del Castello e rimaneva in giro fino a tarda notte. Se qualcuno usciva a passeggio da solo, ben presto si univa a un gruppo per fare due chiacchiere o raccontare una barzelletta e tutti ascoltavamo con sollievo l’eco delle risate fra le mura antiche… Ogni mattina, sulla scalinata del palazzo del Comitato centrale che un tempo incuteva tanto terrore, le donne aspettavano il nuovo segretario generale Alexander Dubcek per consegnargli una fetta di torta casalinga o un mazzo di fiori…».
Cos’era accaduto? Libertà di stampa e di associazione, fine della censura, ritorno dei partiti non comunisti, riabilitazione delle vittime dello stalinismo, riforma federalista per rispondere alle ansie degli slovacchi. E caute riforme economiche. Ma più ancora della sostanza pur importante del nuovo, fu l’aspetto simbolico a prendere il sopravvento, l’intera società civile era come attraversata da una scossa elettrica. Gli studenti erano costantemente in piazza, gli intellettuali firmavano a migliaia manifesti per spingere il governo a riforme sempre più radicali. A fine febbraio la tensione con il Pcus era già sensibile e da allora in poi l’escalation fu inevitabile e incontrollata.
L’intervento di Mosca
In luglio i leader di Urss, Ddr, Polonia, Ungheria e Bulgaria riuniti a Varsavia denunciavano la situazione che «metteva a rischio gli interessi vitali di tutti i partiti comunisti». In Ucraina e nelle repubbliche Baltiche c’era già chi chiedeva di importare le riforme cecoslovacche. Il 20 agosto le truppe del Patto di Varsavia (con l’eccezione della Romania di Ceausescu) entravano nella capitale, la Primavera era finita, i dirigenti del Paese, Dubcek in testa, vennero arrestati, condotti a Mosca e costretti a firmare un’umiliante autocritica e a sopravvivere – poi – riciclati ai piani bassi del regime. I partiti comunisti dell’Europa occidentale (a cominciare da quello italiano, come racconta in questa pagina Giorgio Napolitano) per la prima volta espressero solidarietà con i cechi manifestando un timido distacco da Mosca. Ma ci sarebbero voluti ancora anni prima che Enrico Berlinguer proclamasse «esaurita» la spinta propulsiva della rivoluzione russa.
La Cecoslovacchia si inabissava in una notte destinata a durare più di vent’anni. Il 19 gennaio 1969 lo studente Jan Palach si immolò per protesta nel fuoco in piazza San Venceslao, come facevano allora i bonzi in Vietnam, trasformandosi nell’ultima tragica icona di quella irripetibile stagione. Solo nel 1989, una «rivoluzione di velluto» avrebbe riacceso il soffio della Primavera portando Vaclav Havel – uno dei dissidenti incarcerati allora – alla presidenza della Repubblica.
L’abbaglio dell’Occidente
Ma cos’è che l’Occidente non aveva capito? Lo ha spiegato bene Jiri Pelikan (che in quella stagione fu direttore della televisione di Stato) in un convegno del 1977 a Venezia: «La grande debolezza della sinistra occidentale è stata quella di pensare che “i compagni sovietici alla fine capiranno”. Anche Dubcek pensava che avrebbero capito e fu un errore perché lo scontro era inevitabile se si voleva veramente fare un socialismo diverso». E le cancellerie occidentali assecondavano realisticamente questo fraintendimento che consisteva nel lasciare mano libera a Mosca nel suo blocco purché non ci fossero invasioni di campo.
Ma il sorriso di Dubcek, quel «socialismo dal volto umano», si era rivelato il vero nemico dell’Unione Sovietica, più dell’America o della Nato. La Primavera di Praga e i suoi simboli più ancora dell’efficacia delle sue riforme avevano scalfito quello che Milan Kundera chiamava il «Kitsch» sovietico, e cioè quel collante artificioso composto di ideologia, immagini, metafore, lessico che teneva insieme un sistema spietato. E irriformabile. Da Parigi, dove s’era rifugiato, Kundera divenne a sua volta spietato nei confronti della complice ingenuità occidentale: «Com’è possibile che degli intellettuali di sinistra siano pronti a marciare contro gli interessi di un Paese comunista quando fino a oggi il comunismo è sempre stato considerato parte integrante della sinistra?». Era il 1984.