La Stampa, 15 gennaio 2018
La Principessa di ghiaccio dà scacco a Puccini. La Turandot debutta domani al Regio di Torino
Dopo averne eliminate sei, di fronte a Turandot perfino lui, formidabile serial killer di soprani, si arrende. Dopo Manon, Mimì, Tosca, Butterfly, suor Angelica (sì, anche una suora), Liù, di lei non riesce a sbarazzarsi e lei gli ferma la mano, impedendogli di terminare l’opera.
Nella nuova produzione dell’incompiuta Turandot di Giacomo Puccini che debutta domani al Regio di Torino, il direttore Gianandrea Noseda poserà la bacchetta dopo l’ultima nota scritta dal compositore, rifiutandosi di scegliere tra i tanti finali aggiunti, dal primo, quello di Franco Alfano, potato da Arturo Toscanini che nel 1926 diresse alla Scala la prima esecuzione postuma, al più recente di Luciano Berio. Non funzionano: troppo enfatici, privi di coerenza drammaturgica.
Siamo «a Pekino, al tempo delle favole». La Principessa Turandot non vuole sposarsi. Sottopone ai pretendenti enigmi molto complessi e la sua legge è questa: «Chi affronta il cimento e vinto resta, porga alla scure la superba testa». Di teste ne sono cadute una dozzina quando arriva un Principe Ignoto, che non resiste al suo fascino e la sfida. Vince, scioglie i tre enigmi. Turandot è furente, il Senza Nome le offre una chance: se prima dell’alba scoprirai come mi chiamo avrai anche la mia testa. Gli sgherri della principessa arrestano Liù, una schiava vista in compagnia di Timur, padre del Principe Ignoto. Lei certamente sa come si chiama. Turandot ordina che sia torturata, ma Liù, innamorata senza speranza del principe Calaf «che un giorno mi ha sorriso», per non tradirlo si uccide.
E qui Puccini si ferma: Liù si è pugnalata, il coro ha appena terminato un dolente compianto, «Liù dolcezza, Liù poesia», l’ottavino è svettato con un mi bemolle acuto e lancinante, e i due Principi inneggiano all’amore e corrono a letto assieme? D’accordo che l’opera lirica – come scrive nel 1944 Mao Zedong ai cantanti del Teatro dell’Opera di Pechino – «ha considerato il popolo alla stregua del fango e sulla scena avevamo sempre il segno dei potenti, dei principi, delle contessine», ma il previsto orgasmo vocale Turandot-Calaf a cadavere di Liù ancora caldo non è solo un’esagerazione: oscura l’aspra problematicità della «Principessa di Morte».
Turandot si nega a qualunque uomo in memoria di un’antenata stuprata dal re dei Tartari. Il libretto di Giuseppe Adami e Renato Simoni è esplicito e Puccini prescrive che ogni parola venga declamata, resa comprensibile: «Lo-u-ling, la mia ava, trascinata / Da un uomo, come te, straniero, via / Via nella notte atroce, / Dove si spense la sua fresca voce». Poi, il giuramento: «Io vendico quel grido e quella morte! / No! Mai nessun m’avrà! / L’orror di chi l’uccise / Vivo nel cuor mi sta!».
Dopo una tale dichiarazione – che il prevalente punto di vista registico maschile sottovaluta – è impossibile finire con un repentino happy end. E infatti Puccini non conclude, nonostante lavori all’opera da quattro anni e abbozzi numerosi appunti ancora pochi giorni prima di venire ricoverato nella clinica di Bruxelles dove muore il 29 novembre 1924. Scrive Riccardo Pecci nel miglior saggio recente dedicato al compositore: «Già alla fine del 1923 è ormai chiaro che il lavoro s’è incagliato di fronte al problema del duetto Calaf-Turandot dell’atto terzo; è sintomatico del blocco creativo il fatto che Puccini si dedichi piuttosto a rifinire, limare e orchestrare il resto dell’opera. Le difficoltà sono dunque intrinseche al progetto, e alle incognite dello “sgelamento” della principessa Turandot, figura assai lontana dalle “piccole donne” di Puccini». Liù è una “piccola donna” ed è Puccini stesso a scrivere i versi della sua aria: «Tu che di gel sei cinta» canta la schiava rivolta alla Principessa di ghiaccio. Liù appartiene a Puccini, ultima delle sue donne vittime. Turandot no, è personaggio di inaudita novità.
Eppure, la soluzione era già scritta: in una fiaba persiana raccolta nel volume Le Cabinet des fées che ispira Turandot, la commedia di Carlo Gozzi (1762) fonte dell’opera, l’anima della schiava suicida trasmigra nel corpo di Turandot, sciogliendo il suo gelo. Ma per un operista italiano che non ha letto Sigmund Freud e, a differenza di quanto stava sperimentando l’avanguardia, anche musicale, europea, non si è avventurato nei territori dell’inconscio e delle sue scissioni, è difficile far convivere i due opposti: la donna-serva e fedele comunque e l’affascinante-tremenda donna dominatrice. Liù muore, Turandot vive, ma non può amare Calaf: «Mai nessun m’avrà!».