La Stampa, 13 gennaio 2018
Intervista a Giorgio Tirabassi: «Nessun Paese al mondo ha il senso di ironia degli italiani»
Un po’ proiettiano, forse più manfrediano, con la fronte perennemente aggrottata, il naso importante, la parlata amichevole sporcata da un leggerissimo accento romano, i capelli sempre un po’ mossi, né ricci né lisci, e due occhi attenti, dal taglio grande e intelligente: «Perché ho fatto l’attore? È stata una scelta strana».
Giorgio Tirabassi è uno di quei pochi interpreti che nel corso degli anni sono riusciti a costruirsi una loro credibilità. Ruoli comici, ruoli drammatici: Distretto di Polizia, Boris; stasera La linea verticale di Mattia Torre su Rai3, domani A testa alta – Libero Grassi su Canale 5. C’è la parte, la maschera, e c’è l’artista.
Perché dice che fare l’attore è stata una scelta strana?
«Perché io ho balbettato tanto. Balbetto ancora adesso, per carità, ma fino ai 18 anni balbettavo parecchio. A scuola facevo le interrogazioni scritte. Ero impacciato. Poi, intorno al ’75, ho cominciato ad andare in teatro e ad appassionarmi. L’interesse è nato allora, da ragazzo».
Ma ancora non pensava di fare questo mestiere.
«Da balbuziente mi sembrava poco probabile. A un certo punto, però, le cose sono cambiate. Ho fatto sedute di agopuntura che mi hanno sbloccato. Mi sono iscritto a una scuola privata a Roma e poi a una a Firenze, quando sono partito militare. E poi ho iniziato a lavorare».
Dove?
«A teatro. Partecipavo agli spettacoli più diversi, erano i primi Anni 80. Si rileggeva sempre qualcosa: I fratelli Karamazov, lo Zanni, le maschere. Nell’82 ho fatto il provino con Gigi Proietti. All’inizio mi disse di restare come uditore, poi, visto che avevo i tempi comici giusti, mi diede più scene».
Lei ha lavorato anche con Marcello Mastroianni in «Verso sera» di Francesca Archibugi.
«Mi prese in simpatia. Avevo molte scene con lui e fu molto carino. Fu allora che cominciai a capire che gli attori, anche quando sono grandissimi, possono essere molto umani e molto umili. Era una delle caratteristiche principali di Mastroianni. E poi soprattutto si portavo dietro la storia del cinema, e con una grande generosità di racconti, di aneddoti, di battute».
Conta poco il talento senza l’umanità.
«Quello dipende dal tuo ego. Dipende da chi sei. Questo è uno di quei pochi mestieri, forse l’unico a parte il circo, dove può arrivarci qualunque tipo di persona. È una passione che accoglie tutti».
E che ha accolto anche lei, che era così insicuro.
«Però scherzavo in classe, cercavo di far ridere gli altri. Quel qualcosa devi averlo. Altrimenti non ci pensi proprio a fare l’attore. Il pensiero di stare su un palcoscenico, davanti alle persone, ti terrorizza. Per me è stata una terapia d’urto, che mi ha portato a superare tutti i problemi che avevo».
Tra i suoi lavori più importanti c’è quello su Paolo Borsellino.
«Andò benissimo. Fece grandissimi ascolti. E sono contento che sia piaciuto ai giovani. Durante le riprese ci dicevamo che sarebbe stato bello che succedesse come quando eravamo ragazzini, che c’era un canale solo, un film e il giorno dopo, a scuola, si parlava solo di quello e si faceva il tema in classe».
Televisione e cinema, secondo lei, sono in competizione?
«È uguale. Perché per molti film, dopo il cinema, il destino è la tv. È quello che li rende cult. A casa, oramai, ti colleghi e vedi le cose più belle in circolazione. Le vedi su Netflix, su Sky, vedi le serie tv di tutto il mondo».
Ha mai pensato di dirigere?
«A breve uscirà un mio film per il cinema, l’ho girato la scorsa estate. Si chiama Il grande salto, siamo io e Ricky Memphis, interpretiamo due rapinatori che tentano il colpo della loro vita; c’è commedia e drammaticità nello stesso tempo».
La migliore tradizione italiana.
«È nel nostro Dna, è un peccato che l’abbiamo dimenticato. Pensi a un film come La Grande Guerra di Mario Monicelli. Non so se c’è un Paese in tutto il mondo con un’ironia del genere. Quello è un film italiano al 100%. Racconta l’Italia e gli italiani, racconta due che si imboscano, che della guerra non gliene può fregare di meno».
Forse oggi non ci sono più quegli italiani da raccontare.
«Cambia il momento storico, ma la natura dell’italiano, purtroppo o per fortuna, è ancora quella. Si tratta della scrittura, credo. Ce ne sono tanti di bravi autori. Sta tutto a loro».
Lei è stato diretto anche da Ettore Scola in «La cena».
«Un’esperienza bellissima. Mi fece improvvisare tutto. C’erano scritte due cose, qualche dialogo, ma poi mi diresse come col joystick. Ci divertimmo molto, io e lui. Anche se con una certa apprensione: in quel film c’erano attori di tutto il mondo, attori grandissimi».
La sua altra grande passione è la musica.
«È una cosa che mi piace fare. Non la faccio perché devo. Gli spettacoli nascono da soli. Dopo quasi quarant’anni di carriera, riuscire ancora a trovare qualcosa che ti emozioni non è semplice. Quella passione iniziale si trasforma. Come tutte le grandi passioni».
E ora? Cosa le piacerebbe fare?
«Non glielo so dire. Ogni volta che incontri un nuovo personaggio trovi qualcosa di importante da cavarne fuori. Ultimamente ho rivisto Pasqualino Settebellezze della Wertmüller, quello di Giancarlo Giannini è un personaggio clamoroso. E poi rivedo spesso Pane e cioccolata di Brusati. Nino Manfredi è il mio preferito».
Perché?
«Mi sembra il più moderno di tutti. Andava incontro al personaggio. Manfredi in questo è stato clamoroso. Manteneva sempre questo magico equilibrio tra comico e drammatico. Di grande classe. Ho avuto la fortuna di lavorarci: era generoso, ma molto esigente».
È questo, allora, che manca alle nuove generazioni? I maestri?
«Ognuno ha il suo attore preferito. Forse questa generazione non vede i vecchi film, quelli in bianco e nero. Chiedi se conoscono i film di Francesco Rosi o di Nanni Loy. Niente. E invece dovrebbero sapere tutto».