La Stampa, 13 gennaio 2018
Trump, un anno vissuto pericolosamente
Un anno vissuto pericolosamente, inclusa l’ultima accusa pubblicata ieri dal «Wall Street Journal», secondo cui prima delle elezioni del 2016 l’avvocato di Trump, Michael Cohen, aveva pagato 130.000 dollari alla pornostar Stormy Daniels, per comprare il suo silenzio ed evitare che raccontasse la relazione avuta dieci anni prima con Donald, allora già sposato con Melania. I sondaggi dicono che l’approvazione del presidente oscilla sul 40% (per il Pew 36%), e quando le cose vanno così il suo partito perde in media 40 seggi alle elezioni midterm. Questi però sono gli stessi sondaggi che nel 2016 avevano mancato il suo fenomeno. I critici, liberal ma anche repubblicani, dicono che Trump si sta alienando il Paese. Dall’economia all’immigrazione, incluse le dichiarazioni razziste di giovedì su Haiti, non ha neppure tentato di diventare il presidente di tutti. Sta solo facendo ciò che la sua base voleva, perché è convinto che se riuscirà a tenerla unita, verrà confermato nel 2020. L’importante è evitare le trappole denunciate dall’ex consigliere Bannon, tipo un accordo al ribasso con i democratici sull’immigrazione, o l’abbraccio coi «globalisti» in economia, che invece liberal ed establishment repubblicano incoraggiano, nella speranza di separarlo dai suoi elettori.
La sfida nel 2018 sarà tutta proiettata sul voto midterm. Trump pensa di poterlo vincere, grazie alla crescita favorita dalla sua riforma fiscale, e la fermezza su immigrazione e politica estera. L’elezione grave che ha perso, quella in Alabama, è dipesa dalle scelte estremistiche e dalla guerra civile scatenata da Bannon nel Gop, ma il suo ex consigliere ormai è fuori. Se il presidente supererà l’esame di novembre, si proietterà verso la rielezione nel 2020. Se perderà vedrà paralizzata la sua agenda, e verrà esposto al rischio dell’impeachment per il «Russiagate», che per scattare richiede la maggioranza democratica alla Camera.
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Le tasse ai minimi per aiutare le imprese
La riforma fiscale è il risultato più importante ottenuto da Trump nel primo anno di governo, e anche quello a cui teneva davvero. Molto più rilevante della cancellazione della riforma sanitaria Obamacare, fallita, che era soprattutto una concessione alle pressioni del Partito repubblicano. Agli amici di cui si fida, il capo della Casa Bianca ha sempre ripetuto che la sua presidenza si giocherà su due fattori: economia e lavoro. Il risentimento che lo ha fatto vincere, anche se aveva radici soprattutto identitarie e culturali, è stato incendiato dalla crisi economica. Trump è convinto che se farà salire la crescita verso il 4%, abbatterà la disoccupazione, e riporterà il lavoro in Stati chiave della rust belt come Michigan, Ohio e Pennsylvania, nel 2020 rivincerà allargando la propria base. La riforma fiscale serve a questo, oltre a soddisfare le esigenze dei suoi ricchi finanziatori. Non aiuta molto la classe media e bassa, ma promette di sollevarla secondo l’antica teoria reaganiana dello «sgocciolamento»: se le imprese fioriranno, i benefici raggiungeranno tutti. Nel 2018 quindi si concentrerà sulla ricostruzione delle infrastrutture, un piano che i democratici avranno difficoltà ad osteggiare, e promette investimenti e crescita.
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Tra sanzioni e tregue l’ultimatum sull’Iran
Gli Usa resteranno nell’accordo nucleare con l’Iran, per altri 120 giorni. Ma è l’ultima volta. Se nel frattempo gli europei non accetteranno di modificare l’intesa, rendendo permanenti i limiti all’arricchimento dell’uranio, e includendo il programma missilistico nelle operazioni sanzionabili, Trump la denuncerà. Intanto nuove misure verranno imposte contro 14 individui, tra cui il capo del sistema giudiziario Larijani, per mettere pressione sul regime. È la linea annunciata ieri da Washington.
La politica estera in genere non è il tema che determina il voto degli americani, ma poi è quello su cui i presidenti fanno più differenza. È il caso di Trump, che oltre a scuotere l’accordo con l’Iran, ha cancellato quello sul clima, sfidato Kim sul nucleare, riconosciuto Gerusalemme capitale di Israele, rivisto le aperture a Cuba, accelerato l’offensiva contro l’Isis, ignorato la minaccia della Russia risorgente, ingaggiato e criticato la Cina. I consiglieri dicono che «America first» non significa America sola, ma l’isolamento è palpabile. Trump pensa che l’aggressività rimodellerà il Medio Oriente, fermerà Kim, imbriglierà Putin, rifarà grande l’America, ma i suoi critici temono una reazione che farà perdere influenza agli Usa, se non scatenerà guerre.
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Bandi e muri al confine. E la base resta con lui
Trump ha detto che non vuole immigrati da Haiti, e dagli altri Paesi definiti «shithole», «posti di merda» per due motivi: primo, lo crede; secondo, è quanto la sua base vuole sentire. L’immigrazione, a partire dalla promessa di costruire un muro lungo il confine con il Messico, è il tema che ha lanciato la sua campagna, intercettando le ansie per la perdita del lavoro, dell’identità culturale, e della sicurezza minacciata dal terrorismo. Se non manterrà le promesse, la pagherà alle elezioni midterm di novembre, e soprattutto alle presidenziali del 2020. Il bando per gli immigrati e i rifugiati provenienti da alcuni Paesi islamici, voluto dall’ex consigliere Steve Bannon e scritto da Steve Miller, è stato il primo segnale. Il fatto che i giudici lo abbiano bloccato è quasi irrilevante, sul piano politico, e semmai ha solidificato nella sua base la convinzione di dover difendere Trump. Nel 2018 dovrà cominciare la costruzione del muro, e avviare la riforma generale dell’immigrazione basata sul merito. Il problema è che questo progetto si sovrappone alla crisi degli 800.000 «dreamers», che rischiano di essere cacciati dal 5 marzo: se per salvarli Trump farà un compromesso con i democratici i suoi elettori lo puniranno.
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Il rischio domino dell’inchiesta
Il «Russiagate» resta la principale minaccia per la sopravvivenza di Trump. Il fatto che Putin abbia lanciato un’offensiva per influenzare le elezioni americane e destablizzare l’intero Occidente è una certezza condivisa a livello bipartisan. Il presidente resiste perché ciò mette in discussione la legittimità della propria elezione, ma la stessa strategia nazionale pubblicata dalla sua Casa Bianca denuncia l’operazione. Il problema nel 2018 sarà la sua capacità di separare il proprio destino da questa verità. Il procuratore Mueller (nella foto) sta indagando sulla collusione tra Trump e Putin per deragliare Hillary Clinton, e ha ottenuto la cruciale collaborazione dell’ex generale Flynn. L’ex consigliere Bannon ha invece detto che gli incontri tra Donald junior e i russi erano tradimento, ed è impossibile che il padre non fosse informato. La minaccia più seria per il presidente è che indagando sui motivi della potenziale collusione, Mueller scopra altri reati, ad esempio finanziari, che lo abbattano. Poi ci sono i rischi legati al suo comportamento. L’inchiesta del procuratore riguarda anche l’ostruzione della giustizia, in particolare per il licenziamento del capo dell’Fbi Comey. Vuole interrogare Trump, e se scoprisse bugie potrebbe incriminarlo.