La Stampa, 13 gennaio 2018
La storia infinita di Silvio con i pm. Nuova tegola giudiziaria sulle elezioni
C’è un solo luogo a Milano capace di oscurare “il sole in tasca” di Silvio Berlusconi: la procura di via Manara. Croce e delizia del Cavaliere dimezzato, il palazzaccio di giustizia ultimamente sta avendo con Silvio un rapporto ambivalente e ondivago: il presidente di Forza Italia non è più soltanto il “nemico” da perseguire o l’imputato in pectore, talvolta può essere anche parte lesa da difendere come nel caso dell’inchiesta sulla scalata “ostile” a Mediaset dei francesi di Vivendi, per cui è ancora aperto un fascicolo proprio davanti al pm Fabio De Pasquale, lo stesso che ora lo ha messo nel mirino per la vendita del Milan. E che già in precedenza lo aveva indagato e fatto condannare in via definitiva per la frode fiscale sui diritti tivù, venendo però a sua volta sconfitto per la vicenda Mediatrade. Un’alternanza che da sola garantisce la genuinità della nuova indagine, che dovrà stabilire se attraverso la compravendita del Milan è stato commesso un reato di riciclaggio e se il Cavaliere è coinvolto in questa storia, sospetto che più di una volta si è affacciato nei lunghi corridoi della Procura e che finora l’avvocato Niccolò Ghedini aveva fugato presentando copiosa documentazione. Nuove carte ora sparigliano il gioco. Si vedrà.
Così, negli anni, per Berlusconi i magistrati hanno subito significative trasformazioni: non più soltanto “toghe rosse” o “Torquemada” ma talvolta persino alleati o, per lo meno, giocatori neutrali; addirittura, quando lo assolvono, “giudici a Berlino” (appello Mondadori), finanche dispensatori di somma giustizia quando applicano le sentenze di Cassazione e annullano l’assegno di mantenimento per la ex moglie Veronica Lario. «Investigatori straordinari» quando, in men che non si dica, svelano e risolvono un bizzarro sequestro del cassiere storico di Berlusconi, quel Giuseppe Spinelli emerso con nitidezza nell’inchiesta Ruby come rassegnato pagatore delle pulzelle di Arcore, rapito in casa per una notte dai banditi più incapaci del mondo.
Ma, come sempre accade, se la scintilla giudiziaria scocca durante una campagna elettorale innescando imprevedibili deflagrazioni, allora sono guai e si rinverdisce il termine ormai caro a ogni politico (sia di destra che di sinistra) che parla di “giustizia ad orologeria”, termine coniato dal giornalista Paolo Liguori per stigmatizzare il primo invito a comparire recapitato a Silvio Berlusconi nel lontano novembre 1994, mentre presiedeva da neo presidente del Consiglio, un G8 a Napoli.
All’epoca però Berlusconi era davvero in campo, non solo per gli incarichi istituzionali ma anche per le sfide nell’agone politico in cui si cimentò almeno altre 3 o 4 volte. Oggi invece, il Cavaliere è in realtà un convitato di pietra, importantissimo negli equilibri della futura compagine governativa ma pur sempre in panchina nella gara elettorale per gli effetti della legge Severino e di una condanna definitiva per frode fiscale a 4 anni di reclusione (ridotti a un uno per l’indulto, scontato, come si ricorderà, ai servizi sociali in una casa di riposo).
Un’altra singolare coincidenza riporta però la memoria a quegli anni lontani della “rivoluzione” forzista, naufragata non tanto per la pressione giudiziaria quanto per la rottura con l’alleato più importante: la Lega, all’epoca guidata da Umberto Bossi con cui i rapporti, un po’ come oggi con Matteo Salvini, non erano mai completamente sereni e si alimentavano di sospetti. Archeologia giudiziario-politica che se non serve a capire il nuovo inciampo giudiziario del Cavaliere sul Milan, illumina però sugli effetti incontrollati che certe vicende possono avere.