il Fatto Quotidiano, 13 gennaio 2018
Una generazione perduta fra jihad e tasse
Le nuvole nere scaricano una pioggia sottile e continua. Le buche si riempiono, l’asfalto si sgretola nell’umidità. Il traffico è in tilt. “Manifestazioni e brutto tempo. Siamo proprio a gennaio”. Fouad Hazzini scherza, ma neanche troppo. Ha 28 anni e guida un taxi con un tachimetro che mostra 610 mila chilometri percorsi. “Potrà fare ancora un paio d’anni – afferma Hazzini guardando il quadro della sua auto – ma non so come farò a comprare un’altra macchina. Debiti per tutta la vita”.
Sette anni fa era in piazza, urlava quei Dégage che fecero scappare Ben Alì. Oggi si sente un adulto, carico di responsabilità e disillusione. Niente manifestazioni, sogni a sua misura: “Magari una Volkswagen invece che un’altra Dacia” Dopo la rivoluzione dei Gelsomini, nel 2011, l’economia non ha fatto il balzo in avanti che in molti si aspettavano. La democrazia non attira investimenti. Il debito pubblico non ha fa altro che aumentare. I giovani partono per l’Europa, gli arrabbiati imbracciano il kalashnikov, diventano estremisti islamici e giurano fedeltà all’Isis. Due anni fa gli attentati di Sousse e del Bardo hanno posto fine alla prima industria del paese: il turismo.
Intanto si sono succeduti nove governi. Prima gli islamisti, riproposti in varie formazioni, poi i laici e infine tutti assieme per la coalizione che ora guida la Tunisia. Lo scorso dicembre il debito pubblico è arrivato a oltre cinque miliardi di euro, il massimo mai raggiunto.
Gli uccelli cercano riparo dalla pioggia sugli alberi di Avenue Boughiba. Dai rami osservano i due schieramenti che si fronteggiano. “Hurriya, hurriya (libertà)” urlano i manifestanti. Uno slogan vecchio a cui si sommano le richieste di dignità, lavoro e diritti.
La polizia in assetto antisommossa li scruta, gli agenti in borghese scansionano ogni movimento di chi gli sta davanti. “Stiamo protestando da sette giorni”: anche Zeimab Bin Ahmed ha 28 anni, ma diversamente dal taxista Fouad non ha perso nulla dello spirito del 2011.
“Siamo gli stessi –racconta in un bel francese da studentessa universitaria – chiediamo quello che ci hanno promesso e mai dato”. Il movimento che anima queste giornate di protesta si chiama Fech Nestanew, in arabo Che cosa aspettiamo?. Sono giovani, sono tanti e disorganizzati. Come nel 2011. Si parlano sulle reti sociali e trascorrono ore tra caffè e narghilè a discutere di riforme contro la disoccupazione e del futuro della Tunisia. Come nel 2011. Negli ultimi anni l’economia in recessione ha fatto crollare il dinaro, che ha perso circa il 40 per cento del valore in meno due anni. Le autorità hanno imposto un blocco dei capitali. Per riattrarre gli investimenti e avere un po’ di liquidità il governo ha chiesto aiuto al Fondo Monetario Internazionale. Ottenendo un prestito di quasi tre miliardi di dollari, dilazionato in quattro anni.
La contropartita è una serie di riforme ‘lacrime e sangue’. Le prime sono entrate in vigore il giorno di Capodanno: aumento di tutte le aliquote iva e delle tasse sui beni di consumo, oltre all’introduzione di un “contributo sociale di solidarietà” obbligatorio per le imprese così come per i salariati pubblici e privati.
La risposta della popolazione è stata violenta: scontri in 18 città del paese, supermercati saccheggiati dalla folla, una caserma date alle fiamme persino un treno è stato fermato e assaltato dai manifestanti. Le autorità stanno usando il pugno duro: sono oltre 730 gli arresti e almeno un manifestante è rimasto ucciso negli scontri. Domani si celebrerà l’anniversario della rivoluzione. “Come sempre saremo in piazza, ma quest’anno – dice Zeimab – non sarà una festa, ma una protesta”.