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 2018  gennaio 13 Sabato calendario

Perché in Tunisia c’è una rivolta

«Avete presente Rashomon?», domanda Moncef Marzouki, primo presidente della Tunisia liberata: «La nostra Rivoluzione 2011 è diventata come il vecchio film di Kurosawa: ognuno la racconta come vuole. All’inizio la esaltavano, poi l’hanno demonizzata. Ma i primi anni del dopo Ben Ali sono stati un successo, in confronto a quel che succede oggi…». La Rivoluzione non è finita, forse perché non è mai cominciata. Ma bastano cinque nottate di rivolte, venti città bloccate da gruppi d’incappucciati, supermercati saccheggiati, un morto, un centinaio di feriti e 800 arresti, per dire che una ronda (di notte) fa primavera (araba)? 
Revolution reloaded. Il venerdì di preghiera è passato tranquillo, poche centinaia di manifestanti a Tunisi e a Sfax che gridavano contro la finanziaria strozza-poveri e «i nuovi Trabelsi» al potere, dove Trabelsi è il cognome dell’ingorda Leyla, la moglie dell’esiliato Ben Ali. Domani sull’Avenue Bourghiba si torna a festeggiare – si fa per dire – i sette anni da quel 14 gennaio che sconvolse il mondo arabo. Con la sola certezza che la furiosa Tunisia 2018 è molto diversa da quella che nel 2011 spazzò via la democratura. Più instabile: nove governi in sette anni e nessuno che sia riuscito a rimettere in piedi il Paese (per fare i 200 km da Tunisi a Sidi Bouzid, città simbolo della Rivoluzione, ancora oggi non c’è autostrada e ci vogliono quattro ore). Più povera: un tunisino che allora spendeva tre euro al giorno per il cibo, oggi ne sborsa 15, guadagnando gli stessi 200 mensili. Più disperata: i migranti per l’Italia sono sette volte più d’un tempo, il 40% di tutti i nordafricani che entrano nel nostro Paese. La nuova Costituzione, il Nobel per la pace, l’avere resistito al salafismo e al terrorismo, sono tutti meriti che non riempiono la pancia dei disoccupati, uno su tre. Questa rivolta del cous-cous punta l’indice sul giovane premier Youssef Chahed, «il Renzi tunisino», in un anno e mezzo incapace d’invertire la rotta d’un Paese alla deriva economica. «Le cose miglioreranno», promette lui, ma il prestito da 2,8 miliardi concesso dal Fmi l’ha obbligato ad aumentare di nuovo tasse e prezzi. Due terzi delle entrate statali se ne vanno in stipendi pubblici, il dinaro ha perso il 60%, l’inflazione è tre volte e mezza quella di sette anni fa, l’esportazione d’olio e fosfati è in crisi, il turismo è crollato, non è partita nessuna grande opera: dati inaccettabili per qualsiasi investitore straniero. «Che cosa aspettiamo» a protestare (Fesh Nestanaou) è il nome di questo movimento spontaneo nato contro i rincari: la sua leader è una blogger di 34 anni, Henda Chennaoui, che dice «il contratto fra la società e la politica s’è rotto», non ama paragoni con l’Iran di questi giorni e accusa i nuovi potenti d’essersi inventati una coalizione-macedonia, dove siedono i sindacati, i vecchi benalisti e i Fratelli musulmani, lasciando al popolo le briciole. «I soldi ci sono, è che non arrivano perché la corruzione se li mangia», urlavano ieri a Sidi Bouzid: l’amnistia ai vecchi arnesi del regime, votata l’anno scorso dal Parlamento assieme a questa finanziaria, per Henda è il segno che i tunisini «devono riprendersi in mano il futuro». Già, il futuro: un terzo degli arrestati è minorenne. «Il denaro del popolo è nei palazzi – dice uno slogan— i bambini del popolo sono nelle prigioni».