la Repubblica, 13 gennaio 2018
La serie tv su Gianni Versace non parla di Gianni Versace
Sul video quel finto Gianni Versace che pare identico al ricordo del vero Gianni Versace è inquietante, stravolge il tempo come se non fossero passati vent’anni da quando il celebre stilista fu assassinato davanti al cancello della sua villa orientaleggiante affacciata su Ocean Drive a Miami. Ma poi a quell’immagine dell’uomo in vestaglietta rosa aperta sui calzoncini da bagno e in ciabatte si sovrappone la memoria del Versace milanese che abbiamo conosciuto, con setose camicie a disegni barocchi, entusiasta e accogliente, vitale e generoso, il creatore della sensualità femminile anni 90, esibita attraverso la bellezza rara delle top model da lui inventate, donne grandi, imperiose, travolgenti, mai viste prima che lui osasse, proprio nella Milano delle signore chic, ridare loro la femminilità della ricchezza e del potere. Certo c’era forse un altro Versace, quello chiuso nel suo palazzo onirico di South Beach a Miami, circondato dal lusso smodato e infantile di balconate, arcate, mosaici, tritoni, ori, broccati, sirene, colori, marmi, scalinate, piscine. È questo Versace per noi quasi immaginario che vediamo in L’assassinio di Gianni Versace, nove puntate su FoxCrime dal 19 gennaio, due giorni dopo la messa in onda negli Stati Uniti; prodotta da FX, seconda serie di American Crime Story dopo quella dedicata a O.J.Simpson.
Però non è il famoso assassinato il protagonista della serie, ma il suo assassino, o meglio il giovane serial killer cui nei suoi ultimi tre mesi di vita furono attribuiti cinque delitti, ultimo quello di Versace. La storia non nasce da una accurata nuova ricerca, ignora quasi del tutto il Versace italiano e si ispira a un minuzioso libro di Maureen Orth, giornalista di Vanity Fair americana, biografia grondante sangue, illazioni, noiose e pigre ricerche di polizia e FBI: dedicata a Andrew Cunanan, 27 anni, omosessuale, tossicomane, prostituto, deciso a fare la bella vita tra i ricchi nascostamente omosessuali, ammazzandone ogni tanto uno. Per il suo piacere, per invidia, per potere, persino per omofobia. Gianni Versace fu la sua quinta e ultima vittima: tra tanti libri e documentari e film sul caso, due anni dopo quella mattina calda del 15 luglio 1997, uscì il libro della Orth, col titolo Vulgar Favors: per la prima volta oggi viene pubblicato in italiano da Tea tascabili, 486 pagine e un nuovo titolo ritenuto più morboso e allettante, Il caso Versace. La serie televisiva non è un documentario, non è neanche un docudrama, è una fiction che non pretende di imporre una verità che del resto non è mai stata cercata sul serio, malgrado l’FBI sostenga che quella di Cunanan sia stata la più importante caccia all’uomo degli Stati Uniti. Andrew Cunanan, padre filippino e madre italiana, cattolico, studente universitario senza laurea, bello, colto, bruno con occhialini tondi da sapiente, gentile, mondano, sempre sorridente e affabulatore, ma anche torturatore e assassino, è interpretato da Darren Criss, bravo nella sua capacità seduttiva che si interrompe con una inarrestabile violenza mentre il suo volto mantiene una calma elegante. La penultima puntata è dedicata a Gianni e Andrew bambini, con mamme buonissime, naturalmente, a distanza di anni: a Reggio Calabria il piccolo italiano a scuola disegna già alta moda e la maestra cattiva glieli straccia, a San Diego il piccolo italo filippino fa il chierichetto e il babbo benestante e imbroglione lo adora, forse anche troppo, e poi se ne torna nella sua isola per sempre. Nella prima puntata quando Versace cerca di aprire il cancello di Casa Casuarina, Cunanan è a pochi metri da lui, la pistola puntata; un colpo lo sfiora, abbattendo una colomba bianca; il secondo colpo gli perfora una guancia e esce sulla nuca. Il corpo piomba a terra, i gradini di pietra invasi dal sangue; l’assassino fugge, i turisti si fermano, scattano foto, una signora massiccia immerge un pezzo di giornale nel sangue, contentissima: Antonio (il cantante Ricky Martin) si precipita sul corpo immobile, lo solleva urlando, macchiando di sangue la maglietta bianca e il viso. Arriva la polizia, l’ambulanza, vanno già all’asta le prime polaroid. Quelle due orribili ferite le vedremo anche troppo. In ospedale Gianni muore alle 9.21; Donatella-Penelope Cruz arriva col fratello Santo: Gianni è giù nella bara, il viso composto, lei gli appoggia al petto una delle sue cravatte colorate: la sera parte con la scatola dorata che contiene le ceneri, un’orchidea bianca sul coperchio. La Cruz vestita di nero e coi lunghi capelli ossigenati, è così brava nell’esprimere dolore, stupore, responsabilità, forza, da sembrare davvero la Donatella di quei giorni luttuosi. Il resto della fiction si occupa soprattutto delle trappole di Cunanan, di come avvicini anziani omosessuali, viva qualche giorno di splendore, bendi le loro facce con nastro adesivo, avvicini Versace (evento mai provato). La serie non ci ridà certo il personaggio che ha collaborato alla grandezza della nostra moda, anche nella goffaggine con cui Ramirez fa finta di creare meraviglie, in enormi hangar che nulla hanno a che fare con i bei studi di via Sant’Andrea: tuttavia sa ricostruire quel fine decennio in cui il coming out era ancora difficile, l’AIDS non aveva ancora una cura, i diritti civili erano lontani, e almeno negli Stati Uniti la polizia non si affaticava, se un gay veniva ammazzato: nel caso di Cunanan non si erano neppure dati da fare a cercarlo, prima che assassinasse un nome troppo importante. Otto giorni di caccia dopo l’assassinio di Gianni Versace, il 23 luglio, a poche ore di distanza dal grandioso funerale milanese, Andrew Cunanan fu localizzato.Donatella oggi ricorda: «Avevano circondato l’houseboat dove poteva essersi rifugiato Cunanan, la polizia mi teneva informata per telefono.
Quando finalmente entrarono, il suo corpo era disteso sul letto: si era sparato in bocca, portava pantaloncini con il marchio della Medusa, la testa appoggiata a due nostri cuscini».