la Repubblica, 13 gennaio 2018
Alitalia, i vecchi fantasmi risvegliati dal voto
Ciak, si rigira. Titolo: “Alitalia 2 la vendetta”. Trama: la stessa del 2008. L’ex compagnia di bandiera, tanto per cambiare, è in prognosi riservata. C’è un compratore – ieri Air France, oggi Lufthansa – pronto a rilevarla. Alla vigilia delle urne e a un passo dalla vendita, ora come allora, il colpo di scena: spuntano voci di nuove offerte, iniziano a cantare le sirene dell’ “italianità”, qualcuno auspica persino un presidio dello Stato nel capitale. Il sequel 2018, finora, è la fotocopia dell’originale. E affida in questi giorni al governo Gentiloni un compito delicatissimo: riscrivere il finale tutt’altro che lieto di dieci anni fa quando il pirotecnico ingresso della questione Alitalia in campagna elettorale – complice il fiuto populista di Silvio Berlusconi – ha fatto saltare tutti i tavoli e scappare i francesi. Lasciando un conto salatissimo da pagare (più di due miliardi) ai contribuenti tricolori.
La situazione, dicono gli ottimisti, è questa volta più chiara e lascia, in teoria, poco spazio alle sorprese: tre concorrenti – Lufthansa, il fondo Usa Cerberus e Easyjet – hanno presentato offerte per l’acquisto delle attività di volo della società, in amministrazione controllata dalla scorsa primavera e tenuta in vita da prestito ponte dello Stato – leggi soldi dei cittadini da 900 milioni. Lufthansa è in pole position: offrirebbe qualcosa come 300 milioni e pretende circa 2mila esuberi, cifre trattabili. Il termine «per la conclusione della gara» è stato prorogato al 30 aprile «per non indebolire il potere negoziale dei Commissari».
Ma l’ingresso in campo in Zona Cesarini di Air France (a volte ritornano) e dell’americana Delta ha già ridato forza alle voci che chiedono un rinvio ulteriore. «Vogliamo vendere e non svendere» ha chiosato il ministro dei Trasporti Graziano Delrio che come tutto l’arco costituzionale non vuole trovarsi a metà campagna elettorale a dover discutere di quanti tagli fare in Alitalia.«Dobbiamo vendere bene e presto», ha puntualizzato il collega alla Sviluppo economico Carlo Calenda, che da tempo fiuta il rischio di un trappolone in periodo elettorale per allungareil periodo di vendita. Mettendo a rischio – come nel 2008 – non solo la salvezza dell’aerolinea, ma pure i soldi degli italiani.Il partito dei frenatori – che vanta molti fan tra sindacati, personale e mondo aeroportuale – qualche risultato l’ha già ottenuto.
Nessuno l’ha messo nero su bianco, ma il termine del 30 aprile per la vendita è nella sostanza già saltato. E l’unico paletto è oggi il 30 settembre, data entro cui Alitalia dovrebbe restituire allo Stato i 900 milioni del prestito ponte più gli interessi vicini al 10%. «Il settore aereo si sta consolidando in Europa come negli Usa, mettere Lufthansa contro Air France per conquistare il mercato italiano ci consente di massimizzare incassi monetari e occupazionali», dicono gli uomini vicini a Luigi Gubitosi, il Commissario più favorevole a fare le cose con calma.Il rischio di questa scelta, dice chi ricorda il finale del 2008, è altissimo. Per due motivi: il primo è che Alitalia non ha sistemato i suoi conti.
E malgrado il lavoro dei Commissari continua a mangiare soldi pubblici. Forse non al ritmo di 3 milioni al giorno, come a inizio 2017, ma quasi certamente a ritmi ancora elevati. Il secondo è che alla fine i compratori – stanchi della melina italiana – facciano marcia indietro, lasciando il cerino in mano ai contribuenti e puntando a conquistare i cieli tricolori spartendosi le spoglie dell’ ex-compagnia di bandiera. Le ferite lasciate dalla retromarcia Air France dopo le intemerate berlusconiane del 2008 fotografano bene i danni potenziali: il governo dell’ex-Cav è stato costretto a mandare in amministrazione controllata Alitalia prima di girarla alla cordata dei “Capitani coraggiosi” messa in piedi da IntesaSanPaolo. I 300 milioni di prestito ponte garantiti allora dal Tesoro, i bond Alitalia in portafoglio allo Stato e le azioni pubbliche sono andati in fumo (Air France le avrebbe pagate) bruciando un miliardo.
I tagli in Alitalia sono stati superiori a quelli chiesti da Parigi, Malpensa non ha recuperato i voli tolti dall’ex compagnia di bandiera («è impossibile che l’aeroporto di Milano venga privato del 72% dei suoi voli», aveva tuonato Silvio prima del voto del 2008 blandendo gli elettori del Nord). E il welfare garantito ai dipendenti in esubero è costato quasi due miliardi, 1,2 per l’integrazione all’80% delle pensioni, 700 milioni per la cassa integrazione.Difficile immaginare cosa sarebbe successo se Alitalia fosse finita in mano ad Air France (rientrata del resto poco dopo nel capitale) come previsto dal piano di Romano Prodi, visto che un paio di anni dopo la crisi e il petrolio a 100 dollari hanno mandato in tilt il settore. Ma di sicuro senza il ribaltone elettorale del 2008 il conto per l’Italia sarebbe stato molto meno salato. Non solo.
Gli errori di allora hanno continuato a pesare sulle tasche dei contribuenti anche nell’era dei privati. Le Poste hanno perso circa 75 milioni per tenere a galla la compagnia. Allungando la lunga lista dei soci che hanno bruciato centinaia di milioni nel pozzo nero della grande malata dei cieli nazionali: i “patrioti” guidati da Roberto Colaninno hanno perso i 900 milioni che hanno investito, le banche – Intesa e Unicredit in testa – 600, Air France ha gettato al vento altri 320 milioni, gli arabi di Etihad, i salvatori del 2015, 387. Il rischio ora, rimandano le scelte per non turbare la pace elettorale, è che l’orologio torni indietro di dieci anni. Presentando di nuovo un conto miliardario agli italiani.