la Repubblica, 12 gennaio 2018
La provincia sospesa. I tormenti dell’Alto Adige
BOLZANO «Il mio sogno – dice il sindaco di Bolzano Renzo Caramaschi – è una terra che non si avvita più sulla paura, sull’identità, sulle radici e sulla razza. Oggi siamo qui, tutti insieme e tutti ex rifugiati, la quarta generazione successiva al secolo dei due confitti mondiali. Eravamo poveri e ignoranti, siamo diventati ricchi e colti. La sfida è costruire una società che non emargina nessuno. Altro che cittadinanza austriaca: il processo verso un’istruzione comune è irreversibile, il disagio dei gruppi evapora con la conoscenza delle lingue, gli steccati etnici cadono sotto i colpi della tecnologia e del mercato. L’unico pericolo è riaprire le ferite, pur rimarginate molto bene».
Per settimane la propaganda pre e post elettorale ha dipinto un Sudtirolo anni Sessanta, pronto a riesplodere sugli stereotipi indipendentisti che ne hanno segnato il passato. Visitando i suoi masi, i paesi, le città e gli snodi del potere economico, culturale e politico, si scopre al contrario un luogo contemporaneo, pienamente cosciente della realtà che lo circonda e che lo governa. Da una parte l’estrema destra austriaca del nuovo vicecancelliere Heinz Christian Strache, i suoi terminal locali degli Schuetzen eredi di Andreas Hofer, dei Freiheitlichen di Andreas Leiter Reber e della Suedtiroler Freiheit di Sven Knoll e della “pasionaria” Eva Klotz. Dall’altra l’università trilingue e l’appena inaugurato «Noi», il futuristico polo tecnologico, le multinazionali famigliari e la crescita vertiginosa del turismo internazionale, il tunnel ferroviario sotto il Brennero e la rivoluzione che promette di cambiare il volto del centro di Bolzano. Un’arcaica politica-Oetzi ispirata alla mummificazione degli scontri, da cui non si riscatta la nazionalista destra italiana, prova a risucchiare nel passato l’autonomia- simbolo di un’Europa senza barriere. Un’avanzata società rural- digitale di stampo bavarese trascina invece tutti, tedeschi, italiani e ladini, verso un futuro in cui davvero l’Alto Adige può rappresentare il riferimento globale di una coesistenza collettiva che marginalizza ingiustizie e arretratezze. «La scelta – dice lo storico Giorgio Delle Donne – oggi è tra lo spettro del Kaiser e l’eredità di Alex Langer, tra una piccola patria aristocratica e chiusa e un’Europa aperta, democratica e senza confini. La maggioranza dei sudtirolesi non ha dubbi e vuole confrontarsi con il presente: ma le questioni identitarie, tenute vive dai partiti che vivono di odio e di paura, non possono mai dirsi superate. Se si getta nel piatto la concessione del passaporto austriaco per i sudtirolesi che si dichiarano tedeschi e ladini, a un secolo esatto dall’annessione allo Stato italiano, si sa perché si ricomincia ma non quando e come si può finire».
Le elezioni decisive
Il punto è che i discendenti degli italiani deportati qui da Mussolini, vittime a loro volta del fascismo e del nazismo, non hanno alcuna colpa e subirebbero la vendetta dell’ennesima discriminazione. Cittadini di serie A contro cittadini di serie B, dopo cento anni ancora ospiti a cui viene discretamente suggerito di cambiare albergo. Per questo in Alto Adige il 2018 si annuncia come un anno cruciale. Il 2017 si è chiuso con il voto a Vienna. A fine febbraio il bis in Tirolo, poi elezioni politiche nazionali in marzo, con destra e populismi che guadagnano consenso in tutto il Nord e promettono di tornare al governo a Roma. Elezioni regionali infine in novembre, proprio nell’anniversario della dissoluzione dell’Impero Austro- Ungarico, con le destre tedesche e italiane che in Sudtirolo soffiano sul fuoco perenne della divisione e promettono di archiviare l’era del monopartitismo Svp, alleato del riformismo autonomista italiano.
L’intera geografia del potere, in questo spicchio del continente, entro l’anno risulterà ridisegnata da quattro voti. In mezzo, mesi di contro- commemorazioni del 1918, con la resa dell’Austria-Ungheria a Villa Giusti e l’annessione sudtirolese del 1919, la fine e il principio di due storie. Bolzano, come nei primi anni Duemila segnati da Joerg Haider e Silvio Berlusconi, teme di svegliarsi nella morsa di un doppio nazionalismo contrapposto italo-austriaco, euroscettico e caratterizzato da una leghista concezione divisiva delle autonomie. «Già in estate – dice il re degli Ottomila Reinhold Messner – avevo colto una tendenza pericolosa. Sebastian Kurz, oggi cancelliere a Vienna, mi chiese di accompagnarlo sull’Ortles. Ho rifiutato, sapevo che si sarebbe accordato con i neonazisti di Strache. Immaginate cosa sarebbe accaduto in Alto Adige, ora che guarda caso proprio loro ci offrono il doppio passaporto. Mi avrebbero accusato di aver sdoganato chi cerca di dividere la mia gente, adescando ingenui e falliti con la promessa di indipendenza e autodeterminazione. Da mezzo secolo qui si lavora per una pace culturale ed emozionale, Silvius Magnago e Luis Durnwalder hanno abbattuto i Muri e dimostrato che l’autogoverno può sottrarre al dolore e alla miseria. Io sono sudtirolese, europeo e cittadino del mondo, non casco nella trappola di una post- imperiale cittadinanza austriaca: penso che dobbiamo stare attenti e prometto che mi batterò contro ogni tentativo di usare l’Alto Adige come rinnovata merce di scambio tra nazioni, utile per distruggere l’unità dell’Europa».
Non tutti però la pensano così. Nel caffè bolzanino che vende la torta Sacher originale, unico spaccio di «pasticceria diplomatica» fuori dall’Austria, il comandante degli Schuetzen Elmar Thaler e Roland Lang, presidente dell’associazione degli ex combattenti, l’Heimatbund, continuano a promettere che «il dossier doppio passaporto sarà chiuso tra quest’anno e il prossimo». «Il disegno di legge a Vienna è pronto – dicono – il gruppo di lavoro per la cambiare la Costituzione è stato insediato. Non ci saranno rinvii. Nel 2006 l’Italia ha concesso lo stesso diritto ai discendenti dei connazionali di Slovenia e Croazia, senza chiedere il permesso a nessuno. La doppia cittadinanza è la fotografia giuridica postuma di una realtà storica: non c’è alcun odio etnico e la destabilizzazione diplomatica è una barzelletta di chi ha dipinto il proprio potere unico come necessità per evitare una guerra civile».
Simili comizi, secondo i sondaggi, in Alto Adige riscaldano il cuore solo di una minoranza. Su 350 mila tedeschi e ladini che potrebbero accettare la tutela formale di Vienna, non più di 70 mila, circa un settimo dell’intera popolazione, si dichiara genericamente interessata.
A sorpresa però, più che tra i vecchi diffidenti plasmati dai rovesci del Novecento, l’offerta fa breccia tra i giovani. A spiegare perché, nel suo studio di Brunico con i fogli manoscritti del prossimo romanzo appesi alle pareti, è lo scrittore Joseph Zoderer. È stato lui, trentacinque anni fa, il primo ad aver rotto il silenzio e la vergogna sull’estraneità e sulla solitudine che fino alla morte inseguono cui è nato tra due mondi. «Le generazioni post anni Novanta, cresciute dopo la chiusura del Pacchetto e dopo la quietanza liberatoria austriaca davanti all’Onu – dice – non hanno memoria del baratro sopra cui siamo stati a lungo sospesi. Pensano che l’opportunità di un rifugio in Austria sia un modo per crearsi un’alternativa alla crisi italiana, per sigillare i confini nazionali e per sottrarsi ai flussi migratori. Il termine politico è opportunismo, quello poetico egoismo. A chi si sente escluso da globalizzazione e rivoluzione digitale, immobile in un villaggio monolingue paralizzato dalla sacralizzazione delle tradizioni, non interessa se il prezzo del suo riscatto è la demolizione dell’universo che lo ha reso comunque un privilegiato». Il romanzo l’ «Italiana», tradotto in tutto il mondo, resta una misteriosa profezia. La sudtirolese Olga, figlia del maestro alcolista scesa dalla montagna in città, sposa l’italiano Silvano e a causa di questo “tradimento” si trasforma a sua volta in una “Walsche”, una “terrona” per sempre esclusa dalla comunità in cui è venuta al mondo. Bastavano pochi chilometri, allora, per mutare anche un nativo in un migrante, in un estraneo, in una scheggia impazzita di “Heimat”, il microcosmo ermetico dei compaesani.
«Pretendere di assegnare certificati razziali di appartenenza – dice Zoderer – rimette in scena oggi gli abusi di ieri. Mi tornano in mente le Opzioni del 1939, aggiornate secondo le regole del capitalismo. L’Alto Adige per le destre europee può costituire un laboratorio rivelatore. Se l’esperimento di differenziare i livelli di cittadinanza riesce qui, epicentro del benessere e della pacificazione, significa che può essere esportato ovunque. I confini non vanno militarizzati, ma semplicemente superati. Non mi preoccupa la propaganda delle destre, ma la reazione non sufficientemente ferma della società civile». A Bolzano però, va detto, i passi avanti concreti e positivi non mancano. Il Monumento alla Vittoria, icona del colonialismo di Mussolini e dell’italianizzazione del Sudtirolo, dopo decenni di scontri è stato “depotenziato”. Nei sotterranei è stato aperto un museo storico condiviso, che non censura le violenze del fascismo contro i sudtirolesi. Il dramma degli “Optanten” e dei “Dableiber”, traditi sia dal Fuhrer che dal Duce dopo il 1939, dovrebbe segnalare senza equivoci qual è l’approdo delle esasperate identità nazionali. Lo scorso novembre tedeschi, ladini e italiani hanno inaugurato insieme una scritta trilingue che copre il bassorilievo con le parole d’ordine di Mussolini, “Credere, Obbedire, Combattere”. Il passo della filosofa germanica Hannah Arendt ricorda invece che “Nessuno ha il diritto di obbedire”. La città italiana, eretta al di là dei prati del fiume Talvera, ora è meno auto- ghettizzata.
«La verità però – dice lo scrittore Luca D’Andrea, caso letterario internazionale con i suoi thriller altoatesini che esplorano le pre-ragioni politiche e culturali del male – è che la Suedtiroler Volkspartei, partito di raccolta etnica con l’autodeterminazione nello statuto, non può chiamarsi fuori da quanto sta succedendo. Da decenni ogni dissenso qui viene tacciato di fascismo, il doppio malessere regolamentato dal censimento e dalla proporzionale è la fonte prima del conflitto tra gruppi linguistici. Se l’autonomia non serve a superare le identità, coltivando l’ossessione per le radici, rivela di essere solo una prigione. Ogni tanto attorno alle radici va rinnovato l’humus: l’alternativa è ripiombare nella logica del sangue e suolo». Così sono in molti, a partire dal vescovo Ivo Muser, a sollecitare un’opposizione più chiara anche dell’Svp alle seduzioni pantirolesi delle destre austriache e locali. Non solo per un fatto provinciale che sottende riflessi internazionali, ma per erigere un argine alle correnti neonaziste e xenofobe che da Nord e da Est soffiano verso il Mediterraneo. «Liquidare le novità altoatesine che scuotono anche il Trentino come marginali incidenti emotivi – dice il teologo Paul Renner – significa rendersi complici delle possibili conseguenze. Se accettiamo il principio che un passaporto certifica un’etnia, escludendone un’altra, il passo verso la rilegittimazione diplomatica del razzismo diventa breve anche nel cuore dell’Europa. A cent’anni dal 1918 gli anticorpi della convivenza restano forti e l’Italia potrebbe pure chiedere scusa, ma non può sfuggire la sfida epocale dell’accoglienza degli stranieri. Anche in Alto Adige, tra Fortezza, Salorno e Rio Pusteria, vedo crescere nuovi ghetti. È giusto che qui gli italiani pretendano di essere trattati alla pari dai tedeschi: ma affinché la loro domanda sia credibile è necessario che non discriminino, e non permettano di discriminare, i nuovi migranti che rivendicano il diritto a sopravvivere con dignità».
Oltre il rancore
Per capire come l’Alto Adige non sia più quello delle bombe anni Sessanta, o del «Loss von Rom» di Silvius Magnago, tantomeno quello di Carlo I d’Asburgo, basta camminare sotto i portici gotici e nella piazza delle Erbe di Bolzano, o salire fino alle piste da sci tra le Dolomiti. La catene dei negozi sono le stesse che monopolizzano gli shopping center di Dubai. I banchi di frutta e verdura sono gestiti dai perfezionisti commercianti del Sudest asiatico. Gli studenti dell’università trilingue arrivano da tutta Europa. Negli hotel si parla russo e arabo, inglese e cinese. I vecchi paesi di montagna hanno lasciato il posto a scintillanti località progettate dalle archistar internazionali. In caffè e ristoranti stellati i residenti passano con naturalezza dall’italiano al tedesco e dal dialetto, creando spesso un nuovo vocabolario originale. Chi saluta con “Gruess Gott” si sente rispondere “buongiorno”, senza più rancore. Di irriducibilmente tirolese, a parte la messa in scena turistica dei mercatini di Natale, resta poco o nulla. Il luogo più visitato sono le terme di Merano: la casa-museo di Andreas Hofer, pochi chilometri di distanza a San Leonardo in Passiria, non riceve che comitive di vecchi Schuetzen piumati, orgogliosi dei loro inutili schioppi. In estate e in inverno si assiste alla processione di presidenti e premier, ministri e leader di partito, che si ritirano qui per fare trekking, sciare, dimagrire e incontrare i colleghi nella discrezione delle stubi.
La domanda comune è dunque se davvero può, una terra tanto aperta e globalizzata, ricca e posta sulla più strategica via di comunicazione tra il Nord dell’Europa e il Mediterraneo, venire all’improvviso risucchiata in gorghi da Impero asburgico e Guerra Fredda, richiudendosi come un ranuncolo appassito. «La riposta – dice Roberto Toniatti, docente di diritto costituzionale all’Università di Trento – è che questo dipende dalla forza dell’onda nazionalistica che si è alzata sull’Europa». Significa che i masi chiusi e i rifugi a cinque stelle, le industrie e le cantine dei vini, le seggiovie e i magazzini delle mele, non vivono in un dorato e immutabile mondo a sé solo perché un accordo internazionale post-bellico tutela l’autonomia di cui godono. «Il problema – dice Toniatti – è che la politica supera il diritto e che Vienna, sognando il recupero dell’antica grandezza, vuole sottrarre a Budapest la leadership europea del neo-nazionalismo razziale. Alle elezioni in Tirolo si annuncia un altro trionfo dell’estrema destra, l’Alto Adige può davvero trovarsi ridotto a una Catalogna tedesca per un incrocio di interessi esterni che si alimentano con l’odio e con la paura della minoranza».
Per i giuristi, dopo che il cancelliere austriaco Kurz ha assicurato che il doppio passaporto non sarà concesso senza l’assenso di Roma e di Bruxelles, la praticabilità dello strappo non è più scontata. Vienna dovrebbe cambiare la Costituzione nazionale e ritirarsi da convenzioni e accordi europei. La concessione di doppia cittadinanza, dentro la Ue, è inoltre regolamentata oggi da una serie di “soft law” che circoscrivono i rapporti tra Stati confinanti. Il principio è quello della concertazione: non si varano misure che coinvolgono cittadini europei senza il consenso dello Stato ospitante, altrimenti tacciabili di aggressione e di attentato all’integrità territoriale e alla sovranità altrui. «Per questo – dice Toniatti – Vienna ha appena istituto una commissione governativa sul doppio passaporto ai sudtirolesi e per questo sarebbe strategico che anche Roma facesse subito altrettanto. Solo un negoziato tempestivo, politico e diplomatico, mette al riparo dal rischio di dover magari prendere atto di un colpo di mano. Con quali strumenti concreti reagirebbe l’Italia, se l’Austria tra pochi mesi concedesse la cittadinanza ai discendenti dei suoi cittadini pre-1918?».
In dicembre Roma ha dato l’impressione di ridimensionare gli effetti altoatesini del nazionalismo della destra austriaca a un fatto sportivo. Sono state stilate le liste dei campioni azzurri, dallo sci al pattinaggio, che potrebbero lasciare il Coni e gareggiare sotto la bandiera rossa e bianca. Molti italiani hanno concluso che la tentazione austriaca di rimettere un piede a sud del Brennero si limiterebbe a sfilare Carolina Kostner e Christof Innerhofer ai medaglieri tricolori. «Almeno Tania Cagnotto – sdrammatizzano nella piscina dei tuffi di Via Maso delle Pieve, non ce la tocca nessuno».
«Invece – dice Eva Klotz, figlia del “martellatore della Val Passiria” e storica leader dell’indipendentismo pantirolese – avvicinarsi a Vienna è il primo passo verso la libertà e verso un rapporto privilegiato con la madrepatria austriaca. Se la Ue non ci concede la riunificazione del popolo e della sovranità tirolese, potremo almeno sentirci tutelati dalla diplomazia di Vienna. Nessuno può costringerci a sentirci italiani, il nostro sogno rimane un referendum per l’autodeterminazione. Sono convinta che nonostante l’instabilità generata dalla Brexit e dalla Catalogna, in Sudtirolo sarebbe un successo».
Il mondo economico, in queste ore, si chiede invece se l’offensiva della destra populista serva in realtà a sostenere i significativi interessi privati che si profilano all’orizzonte altoatesino. Le catene della grande distribuzione tedesca stanno conquistando il Nordest, finanziate dal credito di Vienna. Il discusso magnate austriaco Renè Benko, amico di Niki Lauda e grazie alla consulenza locale del commercialista Heinz Peter Hager, 30 professionisti al lavoro in piazza Mostra, si sta impossessando delle aree commerciali e residenziali più pregiate di Bolzano e del lago di Garda. Solo nel capoluogo altoatesino l’investimento supera i 500 milioni di “oiro” (euro).
Gli appalti legati al tunnel ferroviario del Brennero e per l’interramento dell’autostrada A22, nel tratto bolzanino, non lasciano indifferenti le cordate austriache. Tale rinnovata e legittima attenzione del capitalismo di Vienna per la provincia più ricca d’Italia e per una delle 25 aree con il più alto Pil pro capite d’Europa, non ha una relazione diretta con la proposta di doppia cittadinanza. A nessuno sfugge però che la riesplosione dell’affetto politico austriaco per i fratelli sudtirolesi, mai sinceramente amati, abbia come conseguenza il rafforzamento della sicurezza militare al Brennero e una implicita agevolazione del business sui due versanti confinanti delle Alpi, spingendosi fino a Trento e abbassando la frontiera a Verona. Anche il Trentino fino al 1918 ha fatto parte dell’impero asburgico e già gli Schuetzen di qui, non frenati dagli autonomisti del Patt, invocano l’estensione del doppio passaporto alle terre irredente di Cesare Battisti: Dante Alighieri di nuovo contro Walther von der Volgelweide, poeti contrapposti in modo strumentale dagli scontri novecenteschi, che dominano sui monumenti delle piazze principali dei due capoluoghi regionali. I volti così, tra Dobbiaco, Resia e Salorno, sorridono. I cuori invece tornano inquieti. «In dieci anni – dice l’ex presidente del Consiglio provinciale Riccardo dello Sbarba – gli eletti pro-autodeterminazione sono saliti da due a dieci, su 35 seggi. Se a questi aggiungiamo i falchi della Svp, prendiamo atto che oltre un terzo del Consiglio provinciale dichiara ormai il proprio sostegno a un’autonomia non più dinamica, ma indipendentista. Nel governo provinciale siede un solo assessore italiano: il rapporto è di uno a otto. Sono gli effetti dell’ambiguità cronica dei dirigenti del partito di raccolta, terrorizzati dalla prospettiva di perdere il consenso della parte più radicale e impoverita della popolazione di lingua tedesca.
Oggi però fa impressione sentire l’ex presidente Luis Durnwalder, idolo degli italiani, dire che sarà il primo a chiedere il doppio passaporto di Vienna. Può essere che lo faccia per imbarazzare il successore Arno Kompatscher, reo di aver rottamato i suoi fedelissimi e di avergli venduto l’auto blu su eBay, ma così le spinte del nazionalismo austriaco irrompono direttamente nelle istituzioni sudtirolesi, parte dello Stato italiano». Con il centrosinistra necessariamente alleato con la Volkspartei, nel nome di autonomia e convivenza, la diga retorica contro la cordiale prepotenza dei tedeschi sugli italiani resta affidata all’ex finiano Alessandro Urzì, paladino dei toponimi bilingui in omaggio al mussoliniano Ettore Tolomei, e alla grande cerimoniera di Silvio Berlusconi, Michaela Biancofiore, nota per organizzare le settimane fitness del Cavaliere all’hotel Palace di Merano. Nessuno dei due ha ricordato la doppia cittadinanza unilaterale concessa dal governo di centrodestra ai discendenti italiani in Istria e Dalmazia. La loro soluzione, per «difendere la minoranza italofona dell’Alto Adige dalle destre tedesche», è stata il contrario dell’analogo atto precedente di schieramento: invocare l’«intervento dell’Onu».
Nel passaggio politico più delicato dell’ultimo decennio, la popolazione di lingua italiana del Sudtirolo si scopre, con rare eccezioni di figure tecniche, drammaticamente sprovvista di una classe dirigente autorevole, preparata e influente. Al punto che l’autonomia altoatesina, sotto attacco esterno, continua a essere venduta come un modello nazionale applicabile altrove, mentre derivando da un accordo internazionale di pace può al massimo essere presa ad esempio quale soluzione compromissoria di una guerra. Il governatore del Veneto Luca Zaia, o quello uscente della Lombardia Roberto Maroni, dopo i loro referendum regionali non smettono di promettere un’autonomia «modello Sudtirolo» : non chiariscono però agli elettori leghisti che qui tutto resta diviso, dalle classi scolastiche alla casa di riposo, come nel Sudafrica dell’apartheid, che il censimento etnico garantisce a chi si dichiara tedesco (magari solo per opportunismo) oltre il 70% dei posti pubblici, che un altoatesino di lingua italiana non potrà mai aspirare, per legge, alla guida della Provincia autonoma.
Sono anche simili sacrifici non più obbligati, superati dalla storia e dal mondo contemporaneo, a rendere oggi più vulnerabile un «modello» che rivela le fragilità interne del proprio immobilismo, restando scoperto sul fronte dell’isteria nazionalista. Il veleno della divisione così silenziosamente torna a potersi diffondere, il dialogo tra gruppi si radicalizza, la fiducia reciproca evapora e anche chi non si rassegna a non considerare il «territorio» come sinonimo presentabile di «esclusione etnica» in queste ore è costretto a ragionare su un futuro non più ovviamente vantaggioso per tutti.
Il doppio passaporto potrebbe non arrivare domani, nell’anno solare delle quattro tornate elettorali correlate e di un anniversario sensibile come quello del 1918, ma poi chissà e risulta sempre più evidente che a una società locale forte corrisponde una politica localistica debole. Guenther Pallaver, docente di scienze politiche all’università di Innsbruck, ogni giorno lascia all’alba la sua casa di Bronzolo per raggiungere l’ateneo tirolese. È tra quanti, prima di gridare all’invasione post-asburgica, ha cominciato a fare i conti. «Un passaporto austriaco – dice – costa 1200 euro. Essendo un documento Ue, non offre nulla in più rispetto a quello italiano. I giovani altoatesini scoprirebbero invece che in Austria la leva militare è ancora obbligatoria. In compenso i maggiorenni potrebbero votare ed essere eletti nelle istituzioni di entrambe le nazioni. Ma a Sarentino e in Val Gardena chi ha realmente interesse a dare il voto ad un ignoto candidato tirolese, o a presentarsi per fare il sindaco a Innsbruck sapendo che nessuno mai lo sosterrà? Le aggiuntive opportunità reali, comprese quelle fiscali e legate all’istruzione universitaria, possibili già oggi a patto di prendere la residenza in Austria, risultano del tutto marginali. La febbre nazionalista è così tutta politica, non sociale, né economica. Il nervo scoperto è il sistema del potere in Alto Adige, non la xenofobia razzista della destra di Vienna. Negli anni Settanta, dopo il secondo Statuto di autonomia, esisteva una sola forza ufficialmente anti- autonomista: l’Msi di Almirante e Mitolo. Oggi gli scettici e i contrari, in tutti tre i gruppi, arrivano al 27% degli eletti. Ciò significa che il nazionalismo austriaco può nutrirsi in Italia grazie al boom dall’anti-autonomismo sudtirolese. A livello individuale ci si dichiara soddisfatti, il gruppo denuncia il “malessere”. È un paradosso curioso: nel nostro Paese e in Europa dilaga una malintesa aspirazione all’autogoverno locale, mentre nella culla dell’esempio più sofisticato di autonomia, la fiducia nei suoi benefici vacilla. È tempo che il partito di raccolta si svegli dall’anestesia dei contributi, dal clientelismo e dal nepotismo, dalla scarsa democrazia e dalla soffocata partecipazione popolare alle scelte collettive. Dal nazionalismo altrui ci si salva solo con un nuovo inizio della nostra autonomia».
Nel centro commerciale di Brennero, sorto dove prima del trattato di Schengen trovavano alloggio i doganieri italiani, simili discorsi fanno arrabbiare. Per i paesi lungo la Val Isarco, fino a Vipiteno, la «fine del mondo armato e chiuso» è stata una disgrazia. La strategia della tensione, per decenni, ha fornito il pane a tutti, tedeschi e italiani. Oggi la gente si aggrappa a discount e outlet, l’eredità materiale dello scontro tra democrazie e autoritarismi. «Per noi se risale un po’ di maretta – dice Giuseppe Russo, storico pizzaiolo dei camionisti – fa solo bene. La cosiddetta pace ci ha lasciato in un deserto, quando anche i tir viaggeranno in treno sotto le montagne, dovremo andare altrove un’altra volta. Io, migrante figlio di vecchi emigrati, in Sudtirolo sopravvivo grazie all’immenso popolo errante dei nuovi migranti, dal Sud del pianeta e dall’Est dell’Europa. Gli esclusi di oggi salvano quelli di ieri. Quando i potenti risolvono i grandi problemi internazionali dell’economia, non dovrebbero dimenticare le piccole necessità vitali della povera gente». Anche per simili disattenzioni, unite a una certa indifferenza verso i diritti della natura e verso gli esclusi dalla ricchezza, questo è oggi l’epicentro del dissenso delle destre di lingua tedesca, terminal della rivolta più generica «contro un potere che tratta trasparenza e responsabilità come merce scaduta».
Attenzione: questa non è oggi la visione prevalente dell’Alto Adige, ma proprio qui la maggioranza sa bene che le minoranze non possono essere ignorate. Del resto la prospettiva che si gode dal palazzo di vetro della Camera di commercio provinciale, risulta profondamente diversa. L’ufficio del presidente, l’ex europarlamentare Svp Michael Ebner, è al sesto piano. La scrivania è affacciata su molte gru e sui molti cantieri da cui rinasce la Bolzano del Duemila. Ebner è anche alla guida del gruppo Athesia, editore sia del «Dolomiten» che dell’ «Alto Adige» gli storici quotidiani antifascisti di tedeschi e italiani, riaperti nel 1945 e ora non più su fronti opposti. «In Sudtirolo – dice – il Pil 2017 è cresciuto tra l’ 1,7 e l’ 1,8%, quest’anno salirà al più 1,9%. Export e turismo hanno chiuso stagioni da record. La popolazione sente la ripresa e non crede più alla rappresentazione ribollente della società, diffusa da partiti minoritari. Qui, per dieci anni, la gente ha lottato insieme contro la crisi, non vuole perdere i risultati dello sforzo, le polemiche della propaganda prigioniera del passato, la annoiano. I problemi veri oggi sono tre: costruire lo spazio comune più ampio dell’Euregio, unendo nel contesto Ue le forze di Trentino, Alto Adige e Tirolo; convincere le tre comunità a parlare indifferentemente italiano e tedesco, perché solo parlandosi si consolida la convivenza e si aumenta il benessere; ripensare in chiave contemporanea la Regione Trentino Alto Adige, perché divise Bolzano e Trento smarriscono competitività politica, culturale ed economica. Il divario tra le economie di Sudtirolo e Trentino non smette di aumentare, prima del 2009 ha sempre viaggiato in parallelo. È una novità che la politica non può sottovalutare».
Questa logica imprenditoriale, non indifferente alle opportunità politiche, suggerisce a colui che esagerando viene descritto come «l’uomo più potente fra il Veneto e la Baviera» una posizione tutt’altro che ostile verso il doppio passaporto offerto da Vienna a parte dei sudtirolesi. «Buttato lì come una discriminante norma retroattiva – dice Ebner – costituisce un problema e il confronto Roma- Bolzano- Vienna-Bruxelles si complica.
Se invece la doppia cittadinanza, già offerta ad altri proprio dall’Italia, viene costruita nel dialogo e non come atto unilaterale, può rivelarsi un’evoluzione distensiva, fino ad agevolare l’europeizzazione dei territori posti sugli antichi confini».
È un “parliamone” che dentro e fuori dall’Alto Adige fa oggi storcere il naso a tanti, non solo frutto di decenni di diffidenza personale. Il sospetto italiano e mistilingue è quello di un neo-centralismo sudtirolese a cavallo delle Alpi, garantito però dal risorto nazionalismo austriaco e dall’indipendentismo altoatesino, al servizio degli investimenti di Vienna. «Se la preoccupazione è di salvare un’Europa comunitaria e solidale – dice l’avvocato Gianni Lanzinger, compagno di Alex Langer nelle vane battaglie per abbattere i confini – allora l’obbiettivo deve essere un unico passaporto Ue. Ri- stratificare il livello di cittadinanza in Alto Adige, su base genetica, è un anacronismo storico e un errore politico, partorito dal revanscismo para- nazista. La domanda qui resta: l’autonomia è per tutti, italiani compresi, o solo per una parte? Grazie all’Svp e alle destre tedesche si profila lungo il corso dell’Adige il potere crescente di un’Austria nostalgica che preoccupa: il primo effetto è ri-radicalizzare lo scontro etnico che tra il 1961 e il 1968 qui ha prodotto quasi 400 attentati e circa 60 morti sia tedeschi che italiani».
Nella Libera università di Bolzano essere costretti a comprendere le ragioni elettorali che inducono a estrarre i vecchi scheletri dagli armadi, viene liquidato come “sforzo spaziale”. I ragazzi studiano economia e design, informatica e scienze, sognano una facoltà di lingue, sono concentrati sui contatti per trovare un’azienda straniera dove completarsi, magari dove trovare un lavoro. A una doppia cittadinanza italo- austriaca, la digitale generazione post Erasmus che conosce tutti i segreti di Flixbus, voli low cost e Airbnb, si dice interessata «come a un passaporto dell’antico Egitto». Il rischio di una divisione sommersa non tocca solo gruppi linguistici, città e villaggi, anziani e giovani, partiti e ceti. Affonda la lama nelle generazioni, isolando chi può accedere alla conoscenza e all’occupazione, da chi non ci riesce: appaltando a chi resta ingiustamente escluso, l’obbligo di condizionare la convivenza per conto del montante nazionalismo riattecchito sulle radici dell’Impero e del Reich. Sotto palazzo Widmann, sede del governo locale, il monumento a Re Laurino in compenso ha smesso da tempo di rappresentare un’infantile miccia. Nessuno ci bada più, nemmeno gli alpini e pure i piccioni si considerano autorizzati, da tutti i gruppi etnici, a fargliela sull’elmo, quando scappa. Al secondo piano, dopo giorni di arrovellamenti cupi, il sorriso cordiale del Landeshauptmann Arno Kompatscher tende a spazzare via le nuvole.
«Mia figlia – dice – fa lo scientifico al Torricelli, baluardo dell’istruzione italiana. Senza clamori ognuno può ormai iscriversi alla scuola che vuole, le classi sono divise, ma gli edifici sono comuni. Non è una misura discriminatoria, serve a tutelare la ricchezza delle nostre diversità». La premessa gli serve per chiarire che la nostalgia degli scontri lo lascia indifferente, anche nell’anno delle elezioni. «Abbiamo un Pil pro capite di 42 mila euro – dice – siamo un contributore netto dello Stato italiano, a cui versiamo ogni anno mezzo miliardo in più per risanare il debito pubblico. Nessuno può affermare che la nostra autonomia è un privilegio, o un’opportunità non messa a frutto. Se pensiamo a come eravamo cento, cinquanta e venticinque anni fa, è come se fossimo atterrati su Marte. Questo ci permette di investire nella solidarietà: tutta la popolazione percepisce il passaggio dalla convivenza pacifica all’investimento sull diversità, apprezzata quale valore aggiunto comune».
Il successore di Durnwalder, presidente contadino, ha studiato diritto a Innsbruck, Padova e New Orleans. Posto davanti alla domanda di un sogno da realizzare risponde senza dover pensare. «Autonomia e valorizzazione delle differenze sono una realtà – dice – l’obbiettivo ora è contribuire a realizzare un’Europa più unita e meno naziona-lista, in cui la sussidiarietà consenta alle regioni un autogoverno pieno. Se non tutti sono pronti, comprensibilmente, partano i Paesi fondatori, l’Italia, la Germania, la Francia». Il doppio passaporto viene liquidato come un archiviato incidente di percorso delle destre tedesche. «Io sono per un’unica cittadinanza europea – dice – solo antidoto contro la frammentazione. O si ricostruisce un’Europa forte e accogliente, oppure gli estremismi interni e le potenze globali ci spazzano via. In un clima di amicizia poi, si possono valutare idee e sensibilità, anche quelle che ridestano paure». La sensazione è che il sudtirolese “presidente cool” sappia di avere la situazione sotto controllo, che il traguardo di riottenere per l’Svp la maggioranza assoluta dei seggi in consiglio provinciale, senza lisciare il pelo ad Andreas Hofer e a Francesco Giuseppe, non sia parte di un training per l’autostima. Se tutto questo potere totale sia un bene, oppure un male, squarcia discorsi più vasti sul futuro delle rappresentanze democratiche.
L’Alto Adige si avvia così alla sua quinquennale “recita di Bolzano” alzando i toni verbali e lasciando che Roma e Vienna strillino ancora più forte, confinandosi così della loro secolare marginalità. L’obbiettivo dell’autonomia non è più vivere insieme e in pace, o ritornare liberi, ma restare tutti ricchi: bombe patriottiche qui non ne scoppieranno più. Sul maso Lanegg i fiocchi di neve non smettono invece di cadere nemmeno di notte e le braci della stufa li illuminano, simili a sassi senza peso. Per i contadini sudtirolesi, che dipendono dall’energia dell’erba che cresce sui pascoli verticali e che stranamente non sono dotati di cannoni per la neve artificiale, ogni faliva è una pepita. «Beh – dice Sepp Zingerle – se le cose stanno così anch’io sono tranquillo. Mi tengo il foglio di mio padre, non butto nel fuoco il suo commovente “Sud-Tirol ist nicht Italien”. Gli sono affezionato, è come la foto del Kaiser: dopo un secolo non fa più a male a nessuno. E poi, non si offenda, ma qui non si sa mai».