la Repubblica, 12 gennaio 2018
Papà, due figli e la sabbia della Dakar. «Una corsa mistica»
AREQUIPA Dovevano arrivare l’altra sera, invece il camion ha superato l’ultima duna e raggiunto l’accampamento poco prima di mezzogiorno del giorno dopo, e la nuova tappa era già cominciata da un po’.
Mezz’ora fuori tempo massimo, la loro Dakar è finita. Non dormivano da tre notti consecutive. Si sono abbracciati, gli occhi rossi per la stanchezza, la sabbia, il sole, l’emozione.
«Non importa», ha detto papà Antonio. I due figli hanno appoggiato la testa sulle sue spalle. La mattina seguente la famiglia si è comunque rimessa in viaggio, in coda alla carovana. Raggiungeranno Cordoba, con gli altri il 20 di gennaio.
L’avventuroso inferno della Dakar – 9.000 chilometri: prima il deserto peruviano, poi il gelo dei 4.000 metri in Bolivia infine le steppe argentine a 50 gradi di temperatura – è un caleidoscopio di campioni, personaggi, storie. Tra i partecipanti ci sono anche un famoso allenatore di calcio (Villas-Boas però si è ritirato) e un principe arabo, uno chef catalano stella Michelin e l’olandese fondatore di Booking.com, un pompiere spagnolo accompagnato da 6 fratelli e 3 figli, un finlandese con la moglie e il bimbo di neppure un mese che la sera lo aspettano in tenda, un giapponese di 76 anni. E poi c’è la famiglia Cabini, di Crema.
Antonio e i suoi ragazzi.
Raffaella, una delle 13 donne in gara, era indecisa perché a febbraio ha scadenze universitarie importanti («Ma l’ho convinta: un esame puoi sempre ridarlo, un’avventura come questa non ti capita più», spiega babbo). Carlo invece è una matricola della facoltà di fisica a Milano – la stessa della sorella, al terzo anno – e non è così preoccupato: ha solo 19 anni, è il più giovane dell’accampamento. Antonio nella vita è un imprenditore: di Dakar ne ha già corse 21.
L’ultima era riuscito ad arrivare in fondo con una Panda 4x4 – la PanDakar, l’avevano chiamata e un compagno di viaggio, Giulio Verzeletti, che è anche il proprietario del Team Orobico con cui i Cabini hanno preso il via sabato scorso. Antonio e Raffaella su di un camion insieme a Verzeletti, Carlo su di un altro, pilotato da un amico di famiglia. In questi giorni e notti hanno proceduto affiancati ad un terzo mezzo della squadra, «perché questa era un’impresa che dovevamo fare tutti insieme, o niente», spiega Verzeletti. Antonio Cabini ci è rimasto male, ma non è il tipo che si arrende. Anzi. «Ci abbiamo provato in tutti i modi, però in passato qualcuno si era lamentato che al percorso mancava la sabbia e mi sa che questa volta gli organizzatori hanno esagerato nel senso opposto. Di solito nella Dakar le difficoltà aumentano col passare delle tappe, qui è stata subito durissima». Intrappolati con una trentina di altri camion in una valle circondata da montagne che si sfarinavano sotto le ruote, dalla prima tappa hanno dovuto recuperare guidando per tutta la notte nel deserto. «Senza fermarci, mai. È lo spirito di questa gara.
Un’avventura oltre i limiti, con un solo obiettivo: arrivare sino in fondo. Quando si correva in Africa, poco prima del traguardo scorgevi il Lago Rosa: che emozione». La famiglia Cabini si è allenata tutto l’anno sotto l’occhio paziente di mamma Chiara. Hanno sacrificato tutti i momenti liberi e i risparmi, perché partecipare costa parecchio («Un po’ meno per noi dei camion: sui 25.000 a persona»). Ne valeva la pena?
«Sì», sospira papà. «I miei ragazzi a casa fanno enduro e rally. Ma questa corsa è un’altra cosa, forse non è nemmeno sport: è sofferenza, sacrificio, trascendenza. Misticismo. Il bivacco, la carovana. Solidarietà tra avversari, amicizia. Questa volta è andata così, ma penso che da oggi saranno due persone migliori». Raffaella e Carlo non rispondono. Sono in tenda, a dormire.