la Repubblica, 12 gennaio 2018
Massimo Oddo: «Volevo fare il dirigente ma il calcio ha alzato un muro. Ripartiamo con idee nuove»
VERONA Il laureato Massimo Oddo è diventato un allenatore di successo. Raccolta l’Udinese da Delneri in zona salvezza, in 7 partite l’ha portata in zona Europa. Ma il campione del mondo 2006, il secondo dopo Inzaghi a essersi seduto su una panchina di serie A, non si accontenta: vuole lasciare il segno.
Oddo, l’Udinese dei Pozzo è il laboratorio ideale, vedi Zaccheroni, Spalletti e Guidolin?
«Non manca nulla: strutture al top, campi perfetti, personale qualificato. Il resto dipenderà dai giocatori, dallo staff e da me».
Lei, però, voleva fare altro.
«Il dirigente di alto livello: alla Marotta o alla Galliani. Quando ho smesso di giocare nel 2012, ho fatto tutti i corsi possibili: direttore sportivo, patentini da allenatore. Ma l’obiettivo era chiaro».
Invece?
«Ho trovato un muro. Il mio nome rendeva tutto più difficile.
Chiedevo solo di imparare un nuovo mestiere: non ho trovato nessuno che me lo insegnasse».
Studiare non serve a fare carriera nel calcio?
«No, ma apre la mente. Io l’ho sempre fatto, mentre giocavo. A giurisprudenza ho dato 11 esami. Mi sono arenato un po’ a Napoli, quand’ero iscritto a Parma. A 27 anni ho ripreso, scienze manageriali ed economiche a Teramo. Mi sono laureato mentre smettevo al Lecce: 108, ho sempre preso bei voti».
Un calciatore laureato è una mosca bianca.
«Ognuno usa il proprio tempo come crede. Io ho sempre pensato al futuro».
Che cosa ha pensato di Donnarumma che rinunciava alla maturità per le vacanze a Ibiza?
«Ho pensato male. Finire gli studi è uno step da salire, se puoi. Non vuol dire che chi studia sia più intelligente, puoi farti una cultura anche leggendo per conto tuo. Ma è una soddisfazione, un traguardo.
Tempo ne hai: ti alleni due ore al giorno. È questione di voglia, di passione per un obiettivo».
Nonno Giovanni triplista, papà Franco allenatore: strada segnata?
«La passione spesso te la trasmette la famiglia. Da piccolo mia mamma mi portava alle partite di papà. Il figlio di un dentista è più probabile che faccia il mestiere del padre».
Ma lei non aveva la vocazione.
«L’ho scoperta alla prima panchina: Genoa, Allievi B. A 14-15 anni gli adolescenti sono spugne, crescono e imparano in fretta. Nel settore giovanile sei un educatore, umano e tecnico. Da ragazzino, alla Renato Curi di Città Sant’Angelo, ci insegnavano innanzitutto a essere uomini. Oggi il calcio è più business che gioco. Da bambino i miei idoli erano i più bravi: Baresi, Maldini, Van Basten. Oggi spesso è un idolo chi fa parlare di sé fuori dal campo, per l’acconciatura o il gossip. Le regole i ragazzi se le devono dare da soli con la loro intelligenza. I social a volte sono trappole: è appena capitato a Nainggolan. Vanno usati bene».
Come?
«La fama può veicolare comunicazione diversa dal tornaconto personale. Si può provare a fare del bene. A Pescara ci proviamo con una fondazione, mio fratello Giovanni, Gianluca di Felice e io».
I calciatori vivono in una campana di vetro: per questo li fece allenare sulla spiaggia di Pescara?
«Ero appena subentrato. Prima della semifinale dei play-off sentivo che la gente si era riavvicinata, ma i giocatori non ne erano coscienti. Lo percepirono lì, sulla spiaggia, e funzionò».
Un gruppo che funziona è un miracolo, come nel 2006?
«I miracoli non li fanno gli uomini.
L’allenatore propone idee, la credibilità è data dai risultati.
Anche nel 2007 nessuno si aspettava che il Milan vincesse la Champions. La Nazionale fuori dal Mondiale è una delusione enorme, ma da un certo punto di vista ne sono stato contento, per il bene del calcio italiano. La più grande sconfitta fu la vittoria del 2006: il calcio italiano si sentì il più forte e non avvertì l’esigenza di cambiare, mentre gli sconfitti imboccavano una nuova strada».
Adesso?
«Spero che si possa ripartire dalla batosta con idee nuove. Chi arriva può avere anche 70 anni, l’importante è che sia nuovo davvero. Serve un blocco unico: chi ha fatto il calciatore, insieme a grandi manager. Una persona sola non basta. Tommasi e Albertini, ad esempio, sono in gambissima, ma ci vuole un lavoro collegiale: è come il sindaco, gli serve la giunta».
Intanto gli eroi del 2006 aprono un ciclo in panchina.
«Possiamo dare qualcosa d’importante. Sento spessissimo Cannavaro, è entusiasta dell’esperienza in Cina. A Gattuso, che è un amico, auguro il massimo al Milan».
Da ex Bayern, il calcio tedesco è davanti a tutti?
«Per la preparazione degli allenatori siamo davanti noi. Solo che all’estero ci battono in infrastrutture, economia calcistica, manager, approccio sociale. In Inghilterra trasmettono in diretta solo 4 partite a giornata, eppure prendono il triplo in diritti tv. Le nostre partite a volte sono più belle: il problema non è di spettacolo.
Semmai di cornice, con gli stadi vuoti».
Spettacolo è l’azione del gol di Lasagna al Bologna, 4 tocchi di prima in verticale.
«Il gioco in verticale, in Italia, viene impedito dagli avversari. Ai ragazzi ho chiesto che cosa notavano di particolare in quel gol. Non mi hanno saputo rispondere. Nessuno ha ricevuto il pallone tra i piedi, ho spiegato, ma in uno spazio che aveva occupato: l’azione non era preparata, era preparata l’occupazione dello spazio».
Il suo più grande successo da allenatore?
«Torreira a Pescara. Allenavo la Primavera e i dirigenti mi dissero: tienilo un po’ e vedi, se no lo rimandiamo in Uruguay. Io vidi in lui intelligenza calcistica, personalità, fisico, però voleva sempre il pallone sui piedi. Allora gli ho detto: perché non fai il play invece del trequartista? In prima squadra l’ho subito messo lì e ora è quello che vedete».
Tesi di laurea su Milan Lab, oggi un allenatore per gli attaccanti: le piacciono le innovazioni?
«Marco Negri, l’ex centravanti dei Rangers, è nel mio staff come Donatelli e Zauri. Ognuno ha un compito. Negli allenamenti 10 contro 10 riproduco la partita e Negri guarda gli attaccanti, io più i difensori, perché quello facevo.
Marco insegna alle punte lo smarcamento, i tagli».
Il suo abbraccio a Cosmi in lacrime, dopo la sconfitta del Trapani nella finale dei play-off, ha messo fine al luogo comune dell’Oddo superbo?
«Ho trovato strana la risonanza del gesto. Io vado sempre dal collega a stringergli la mano, a fine partita. Mi misi nei panni di chi, dopo un magnifico campionato, aveva perso all’ultimo. Io ci ero appena passato, l’anno prima. E non mi aveva consolato nessuno».