la Repubblica, 12 gennaio 2018
L’Occidente che si divide pure sull’Iran
C’era una volta l’Occidente.
Categoria geopolitica e mediatica che ebbe il suo culmine durante la guerra fredda, ma che oggi appare un residuato bellico. Non c’è quasi crisi in cui i cosiddetti “occidentali” – la “famiglia euroatlantica” – non colgano l’opportunità di dividersi. Il caso più attuale è l’Iran. Washington distribuisce moniti e minacce al regime di Teheran, con la promessa che prima o poi l’accordo sul nucleare finirà nel cestino. E ogni volta che i “falchi” americani alzano tono e tiro, i loro omologhi europei prendono le distanze. O si chiudono in eloquente silenzio. La rivolta popolare che nelle ultime settimane ha scosso la Repubblica Islamica è stata l’ennesima occasione per misurare la diversità degli approcci.
Mentre Trump e i suoi tifavano – e non troppo sotterraneamente operavano – per il rovesciamento del regime, le maggiori diplomazie europee, italiana inclusa, si schieravano con il governo del presidente Hassan Rohani. Se n’è avuta riprova ieri quando Federica Mogherini, alto rappresentante per la politica estera europea (che non esiste, ovviamente, ma è d’uso fingere esista) ha convocato a Bruxelles il ministro degli Esteri iraniano Javad Zarif e i suoi tre omologhi di Francia (Jean-Yves Le Drian), Regno Unito (Boris Johnson) e Germania (Sigmar Gabriel).
Vertice al termine del quale lo scaltro Zarif, massimo architetto per parte iraniana dell’accordo 5+1, ha trionfalmente twittato: «Oggi forte consenso a Bruxelles: l’Iran conforme all’accordo sul nucleare; il popolo iraniano ha tutti i diritti sui propri dividendi». Con accenti variabili, la sostanza di queste affermazioni è confermata sia da Mogherini che dai ministri francese, britannico e tedesco.
Salvo la postilla che esprime “preoccupazione” per lo sviluppo di missili balistici iraniani e l’invito a calmare le proprie pulsioni imperiali.
Giacché da quando, per la gioia di Teheran, George W. Bush decise di liquidare l’ex alleato Saddam Hussein – arcinemico dell’Iran – fino al limitato quanto fallimentare impegno di Obama contro la Siria filoiraniana di al-Assad, Washington non ha fatto che asfaltare autostrade geopolitiche su cui corrono le ambizioni della Repubblica Islamica a determinarsi egemone regionale. Questo non significa che l’Iran possa dormire sonni tranquilli. Non sono certo gli europei che decideranno della sfida fra la Repubblica Islamica e gli Usa. Comunque, se un giorno o l’altro il regime andrà a gambe all’aria, ciò accadrà per l’esplodere delle sue mille contraddizioni domestiche. Giacché i moti di piazza, scoppiati per la frustrazione di non vedere l’ombra dei “dividendi della pace” evocati da Zarif, sono stati cavalcati da gruppi di pasdaran, basiji, hezbollah.
Insomma, dai “difensori della rivoluzione” scatenati contro le derive riformatrici e moderniste. Lo stesso presidente Rohani si è lasciato sfuggire il sentimento delle élite moderate: «Il problema che abbiamo oggi è la distanza fra noi e i giovani. Noi vogliamo che i nostri nipoti vivano come noi abbiamo vissuto, ma non possiamo imporglielo».
Verità evidente, cui i maggiori paesi europei e Stati Uniti reagiscono in modo opposto. I primi si preoccupano che Rohani non venga travolto dagli ultraconservatori. Perciò puntano su una svolta riformatrice. I secondi sperano che con Rohani crolli il regime e magari – perché no? – lo Stato iraniano. Vittime in entrambi i casi dell’illusione di poter decidere dall’esterno il futuro dell’Iran.