Corriere della Sera, 12 gennaio 2018
Le molestie nello sport
Gli orchi dello sport vanno a caccia delle loro prede su ogni terreno: battono palestre e piscine, piste e tatami, campi di calcio e di tennis, percorsi di equitazione. Gli orchi dello sport hanno i volti rassicuranti di istruttori, allenatori, dirigenti. Le loro vittime sono soprattutto bambini e adolescenti, ragazzi e ragazze, in molti casi promesse nelle rispettive discipline. «In una fase della crescita in cui c’è una forte contestazione dei genitori – spiega Francesca Lauria, comandante della Sezione atti persecutori dei Carabinieri – l’istruttore sportivo è la figura più idealizzata e quella più in grado di creare sudditanza psicologica. A scuola il professore mi giudica e basta, sul campo il coach decide se gioco o meno, se sono bravo o meno, se posso o non posso partire in trasferta. Può vanificare le mie aspettative o esaltarle. E se ha scopi perversi e incontra un soggetto fragile, il suo potere di ricatto è enorme».
Quello tra orchi e giustizia sportiva è, dal punto di vista delle regole, un match impari. La giustizia sportiva di 64 federazioni italiane sanziona con 100 commi diversi lo sputo contro avversari o arbitro (diretto, indiretto, sul corpo, sul viso...) ma non ne contempla nessuno che punisca esplicitamente gli atti di pedofilia e violenza sessuale. Eppure in palestre e stadi questi reati prevalgono sugli sputi: nel 2017 la Procura Generale del Coni è intervenuta 44 volte su 15 federazioni costringendole a processare tesserati accusati di reati gravi, spesso in carcere o già condannati.
Molte storie erano di pubblico dominio, le federazioni restavano inerti. «Dobbiamo togliere ai colpevoli la patente di allenatore o dirigente – spiega il procuratore del Coni Enrico Cataldi, che ha abbracciato la battaglia contro i pedofili nello sport – impedendo loro di fare del male. Dobbiamo fermarli prima che colpiscano, con delle misure cautelari. Dobbiamo radiarli. Il fenomeno è inquietante, il silenzio è il nostro peggior nemico. E certe federazioni sembrano scegliere sistematicamente la strada del silenzio sui casi di loro competenza».
Il silenzio attorno a un coach molestatore seriale piemontese, segnalato dal presidente della squadra al Centro Sportivo Italiano, ma tornato in panchina al termine di un passaggio lampo alla Commissione Disciplinare regionale. È stato arrestato dopo aver causato altri gravi danni. Il silenzio su Roberto Del Giacco, allenatore del rugby marchigiano, le cui molestie su sei giovani giocatori sono state condannate in Cassazione: tre anni di prigione. Processi sportivi? Zero. Potrebbe tornare in campo subito. Il silenzio su tre minori (bullismo e presunta violenza sessuale, ancora nel rugby) messi in prova ai servizi sociali a Venezia. Per i tre una lavata di capo federale, per il molestato una lunga terapia psicologica. La Procura Coni ha sollecitato quella del basket (nessun provvedimento per molestie nella sua storia) a muoversi su episodi (gravi) accaduti tra 2014 e 2016 a Taranto, Torino, Ancona e Como. Il calcio ha casistica record: la Procura Figc è piuttosto attiva ma negli enti di promozione (decine di migliaia di giovanissimi) prevale l’inerzia, come nell’episodio accaduto in Piemonte.
«Il rapporto coach/atleta impone un contatto anche fisico – spiega il procuratore del judo, Cristina Varano – che può trasformarsi in relazione impropria. Allontanare un’adolescente plagiata dal coach è difficilissimo. Attorno a certi allenatori si costituisce un harem competitivo e pericoloso. Tutti (o almeno tanti) sanno tutto, nessuno vuole rovinare la carriera di tecnici o atleti promettenti. E così la rete di protezione attorno ai ragazzi si sfalda. L’unico intervento possibile è la misura cautelare, l’allontanamento coatto da allievi e impianti in attesa del giudizio».
Tre mesi fa l’avvocato Nicola Capezzoli, procuratore del ciclismo, ha ottenuto i «domiciliari sportivi» per un allenatore accusato di molestie in base alla sola querela irrevocabile presentata dai genitori ai carabinieri. Caso virtuoso ma rarissimo. «Il giudice penale – spiega Maria Monteleone, procuratore aggiunto al Tribunale di Roma – può applicare alla condanna una pena accessoria che allontani il pedofilo dai luoghi frequentati dai ragazzi, che oltre alla scuola possono essere proprio gli impianti sportivi. Sarebbe importante che le federazioni sportive e il Coni si costituissero come parte civile nei processi contro i loro tesserati per dare un segnale forte».
La legge italiana, però, non sempre aiuta. Quando nel 2014 nacque l’obbligo dei certificati antipedofilia, lo sport alzò barricate al grido di «nessuno vorrà più fare l’allenatore». Una circolare ministeriale esentò subito i volontari e gli assunti con i contratti sullo sport dilettantistico: il 99% di chi opera con bambini e ragazzi non è soggetto a controllo. Col certificato Gianfranco Dugo, 56 anni, arrestato lo scorso marzo, non avrebbe potuto molestare i giovanissimi calciatori di sei squadre piemontesi e lombarde i cui dirigenti ignoravano le sue tre condanne per detenzione di materiale pedopornografico e atti osceni su minori.
Il Coni, che ha appena promosso un convegno sul tema, non tollererà più l’inerzia delle federazioni. «Abusi e violenza sono un problema di tutta la società civile – spiega il presidente, Giovanni Malagò – ma noi ci indigniamo di più in quanto custodi del tempio. Se la magistratura ci aiuta segnalandoci tempestivamente i casi, nessun orco rimetterà piede in un impianto sportivo».
Qualcosa anche si può fare sul piano delle regole. «Se nella squadra di mia figlia ci fossero stati due coach invece di uno solo – ha raccontato al Corriere della Sera la mamma di una giovanissima pallavolista della Valdinievole, abusata per anni dall’allenatore 66enne – si sarebbero controllati a vicenda. E la sua vita non sarebbe stata rovinata».