il Fatto Quotidiano, 12 gennaio 2018
«Londra città-Stato»: la sfida di Kahn contro la Brexit
Ora ci ripensa anche Nigel Farage, fondatore ed ex leader dell’Ukip, vero motore e unico trionfatore del referendum sulla Brexit. Ospite del programma di Channel 5 The Wright Stuff, ieri ha dichiarato: “Ho cambiato idea. Forse, e dico forse, dovremmo avere un secondo referendum sull’Europa… Stavolta la percentuale del Leave sarebbe molto più alta e potremmo finirla una volta per tutte. E Blair scomparirebbe nell’oblio totale”.
È l’ennesima provocazione: Downing Street ha subito escluso l’ipotesi di un referendum che riproponga il quesito del primo, e su questo è d’accordo anche il segretario del Labour, Jeremy Corbyn. Ma c’è un’altra ipotesi, ancora realizzabile e non esclusa da Corbyn: quella di una consultazione sui termini finali dell’accordo, che potrebbe essere decisa da un voto traversale in Parlamento a cui partecipassero una quindicina di Remainers fra i Conservatori. La chiedono in tanti, fra cui appunto Tony Blair, ex padre nobile del New Labour, caduto rovinosamente sulla decisione di esportare la democrazia in Iraq, che ora tenta di rifarsi una verginità politica con una strenua campagna per fermare Brexit.
Poi ci sono i Lib-Dem di Nick Clegg e Vince Cable, che sono nati proprio su una piattaforma europeista, ma oggi rappresentano solo il 7% dell’elettorato. Infine Lord Andrew Adonis, laburista stimato anche dai Tories, che lo avevano voluto a capo della Commissione Nazionale per le Infrastrutture.
Si è dimesso poco dopo Natale in polemica con una decisione del ministro dei Trasporti ma, soprattutto, per dedicare tutte le sue notevoli energie politiche a fermare quella che considera una decisione rovinosa per il paese. In una lettera pubblica ha ammonito così i Conservatori al governo – e ne conosce l’operato dall’interno: “Se la Brexit va davvero in porto, ricondurci in Europa sarà la missione principale della generazione dei nostri figli, che non potranno credere alla distruttività delle vostre scelte”.
Soprattutto, ieri è sceso in campo il sindaco di Londra Sadiq Khan che, raggelato dalla totale mancanza di preparazione del governo sull’impatto dell’uscita dall’Unione Europea, ha commissionato uno studio indipendente alla società di consulenza Cambridge Econometrics.
Cinque gli scenari esaminati: da quello più blando, in cui si manterrebbe un sostanziale status quo, alla prospettiva più temuta: il no deal, la rottura senza accordo. Tutti e cinque provocherebbero un rallentamento dell’economia, specie nel settore dell’ospitalità. Nessun settore produttivo ne uscirebbe comunque indenne, con ingenti costi economici e umani. La prospettiva del no deal è da incubo: il Regno Unito potrebbero perdere fino a mezzo milione di posti di lavoro, di cui almeno 87 mila solo a Londra, e la sua performance economica sarebbe inferiore del 3.3 nel 2030 (il 2% a Londra) a quella già negativa nel caso di una soft Brexit.
Una perdita di almeno 54 miliardi di sterline. “Questa nuova analisi dimostra perché il governo dovrebbe cambiare il suo approccio e negoziare un accordo che ci consenta di restare sia nel mercato unico che nell’unione doganale” ha dichiarato il sindaco, che rispetto agli altri Remainers può ora presentare al pubblico la concretezza spietata delle cifre.
E, chissà, far cambiare idea agli elettori. Resta da vedere cosa farà del proprio consistente capitale politico, e fino a quanto deciderà di spenderlo sul palcoscenico nazionale. Di certo, Khan sta esplorando la possibilità di fare di Londra una sorta di città-stato, staccata dal resto del paese nel post Brexit, con poteri negoziali e autonomie speciali, per esempio in materia di immigrazione e, tema cruciale, di mantenimento dei servizi finanziari. Del resto, la capitale ha votato per restare, con punte del 70% in molti quartieri.