La Gazzetta dello Sport, 12 gennaio 2018
La versione di Nobert: «Le mie tre stelle Michelin senza olio d’oliva, limone e foie gras»
L’appuntamento è a Bolzano, in centro. C’è freddo ma tra bracieri accesi, vin brûlé e mercatini natalizi nessuno ci fa caso. Norbert Niederkofler arriva con un quarto d’ora di anticipo. È appena diventato il 9° tre stelle italiano. È il massimo riconoscimento della guida Michelin, una specie di Oscar per uno chef. «Ho 56 anni, penso di essere il più vecchio a prendere le tre stelle – commenta con una risata il cuoco del St. Hubertus, ristorante dell’hotel Rosa Alpina di San Cassiano-. Ma sono contento perché è il momento giusto. Il mio progetto sulla cucina di montagna sta maturando ora».
Le tre stelle che cosa rappresentano per lei?
«La vita, le sogno da sempre».
È già cambiato qualcosa?
«Il giorno in cui la Michelin ha rilasciato il comunicato stampa i telefoni hanno cominciato a squillare e non hanno smesso per due giorni. Abbiamo preso 450 prenotazioni. Poi abbiamo bloccato tutto perché dobbiamo imparare a gestire questa cosa. Io ho clienti che sono venuti a mangiare da me 60 o 70 volte, non li posso mettere da parte».
C’è una linea che unisce i nove tre stelle italiani?
«No, il bello è proprio questo che siamo tutti diversi e tutti in territori differenti. Adesso ci vorrebbe un tre stelle anche al Sud per completare il quadro».
A San Cassiano hanno dato tre stelle a lei e due a Matteo Metullio della Siriola.
«Un record mondiale: cinque stelle e 600 abitanti».
Perché è diventato cuoco?
«Forse perché la cucina è il posto più bello della casa: c’è caldo, c’è da mangiare, c’è sempre gente con cui parlare. Poi volevo viaggiare ma non avevo i soldi per farlo. Come cuoco sono andato a Londra, New York, Aspen...».
Ma poi è tornato a casa.
«Per una serie di episodi. La montagna ha due aspetti contrastanti: da un lato ti induce a restare perché ti protegge, dall’altro ti spinge a partire perché ti chiedi sempre che cosa c’è oltre».
Lei cucina ancora?
«Certo, cucino e assaggio. Di giorno ho un ufficio per le riunioni, la sera sono sempre al pass».
Quante persone lavorano al St. Hubertus?
«Otto in sala, sette in cucina. Più ho 7 stagisti. Potrei averne il doppio ma che senso ha? Voglio che imparino sul serio».
È importante che lo chef stia al ristorante?
«Negli Usa no, in Europa sì. Per me è una forma di rispetto. Per questo ho sempre rinunciato alla televisione».
Che ne pensa dei cuochi in tivù?
«Che è un mestiere, fare il cuoco è un’altra cosa».
Che cosa è Cook the Mountain?
«Il progetto che ho lanciato per mettere in rete la montagna: cuochi, produttori, alpinisti, imprenditori».
E che cosa c’entra con il suo ristorante?
«Mi dicevo: perché la gente dovrebbe venire fin qui se alla fine faccio il foie gras e il pesce di mare come a Londra, Parigi, New York o Mosca? Così sette anni fa ho deciso di eliminare tutto quello che non c’entrava con la montagna».
E i clienti?
«C’è stato un bel ricambio. Mi dicevano: “Voglio il foie gras o lo vado a mangiare da un’altra parte”. Abbiamo tenuto duro. Sono convinto che le 3 stelle siano arrivate per questa rivoluzione».
Ha introdotto le novità gradualmente?
«No, una sera ho cambiato la carta. Quasi tutti i piatti erano nuovi».
I suoi prodotti arrivano solo dai dintorni?
«Non faccio chilometro zero, non mi interessa. Uso prodotti che nascono in montagna: dal mio territorio, ma anche dalla provincia di Bergamo, oppure dall’Austria. A me sta a cuore la cultura della montagna. Quando abbiamo deciso di lanciare questo progetto abbiamo eliminato tutta una serie di prodotti e li abbiamo sostituiti con altri più coerenti. Per esempio non uso olio di oliva ma olio di vinacciolo. Ho tolto anche gli agrumi».
E quando ha bisogno di un po’ di limone?
«Per l’acidità faccio la salsa di soia con l’orzo e le lenticchie fermentate. Una tradizione della cucina di montagna: basti pensare ai crauti».
Perché si è costruito questa «prigione»?
«Non è una prigione, è la nostra ricchezza. Le persone con gli occhi vedono la bellezza della montagna, con il naso sentono l’aria e con il gusto assaggiano i sapori».
Guardi nella palla di vetro: che futuro vede per la cucina?
«Splendido. La telefonia cambierà, l’automotive verrà rivoluzionato ma dovremo sempre mangiare e bere. Allora bisogna approfittare di questo per vedere le cose in maniera diversa. Lo sa quanti rifiuti organici produce una nave da crociera con 8 mila passeggeri?».
Non ne ho idea.
«Ogni anno 120 mila tonnellate di umido, in gran parte buttato in mare. Adesso Costa Crociere farà a bordo il biogas con l’umido. Se non cominciamo a cambiare, ai nostri figli non lasceremo un bel mondo. Dobbiamo prenderci cura delle persone».
Agli italiani importa dei grandi chef?
«Agli italiani importa della cucina della mamma. Ed è una cosa bella perché se hai radici forte e sai da dove vieni puoi inventare quello che vuoi».
Tra i giovani abbiamo cuochi di talento?
«Tanti ma dobbiamo affrontare un problema che si tende a sottovalutare: gli orari di lavoro. Adesso per attirare i giovani più che soldi dobbiamo dargli tempo libero».
Il suo piatto preferito?
«Da bambino ricordo che una volta la settimana mettevamo al centro della tavola patate bollite con la buccia, burro, formaggio e latte. Ognuno prendeva una patata e la intingeva nei condimenti. Non era tanto il sapore ma la compagnia, il senso della famiglia. Oggi sono cose che stiamo perdendo. Se parliamo di un piatto io adoro la pasta. Quindi uno spaghetto al pomodoro. Anzi, confesso una debolezza: amo i paccheri».
Non sono proprio tipici dell’Alto Adige...
«Nel cuore mi sono sempre sentito un cuoco del Sud».