Il Sole 24 Ore, 12 gennaio 2018
Seul pronta al bando di bitcoin
Le due Coree si ritrovano unite non solo dalle Olimpiadi invernali, ma anche dal bitcoin. Se Seul prepara una nuova stretta sugli investitori con un’azione che potrebbe portare alla chiusra degli exchange di criptovalute, più a Nord Kim Jong-un starebbe progettando una criptovaluta alternativa al bitcoin, con l’obiettivo di utilizzarla per aggirare le sanzioni contro il regime di Pyongyang.
Ma ieri a innervosire la criptovaluta più famosa è stato l’annuncio che in Corea del Sud le principali piattaforme locali – Coinone e Bithumb – hanno ricevuto la visita degli ispettori del fisco per presunta evasione fiscale. Un’azione che sembra preludere a misure più drastiche. Il ministro della Giustizia Park Sang-ki ha preannunciato un ulteriore giro di vita sul mercato sudcoreano – uno dei maggiori ad oggi per il bitcoin, pari a circa un quinto di quello globale – sostenendo che il Governo starebbe mettendo a punto una messa al bando per il trading in criptovaluta sugli exchange locali: «Ci sono grandi preoccupazioni in relazione alle valute virtuali e il ministero della Giustizia sta di fatto preparando un decreto per vietare il trading in criptovalute», ha affermato in una conferenza stampa. In seguito la presidenza della Repubblica coreana ha precisato che il bando non è stato ancora finalizzato, ma è una delle misure che è stata presa in considerazione dalle autorità governative. La possibile stretta sudcoreana ha innervosito un mercato altamente volatile come quello del bitcoin, scivolato da quota 15mila dollari fino a ridosso dei 13.000, assestandosi in serata poco sotto i 14.000.
Gli exchange di Seul erano stati indirettamente la causa della scivolata delle altre maggiori criptovalute a inizio settimana, una caduta puramente teorica. Dopo che a inizio gennaio quasi tutte le principali monete virtuali avevano toccato i rispettivi record, questa settimana Coinmarketcap, il sito di riferimento per le quotazioni che si basa sulla media dei valori dei princiapli exchange a livello globale, ha deciso di escludere le quotazioni di quelli coreani. Troppo spesso, infatti, le piattaforme locali hanno valori molto più alti rispetto al resto del mondo per motivi legati alla maggior rischiosità e a ragioni fiscali. È bastata questa esclusione – a cui si sono accodate le conseguenti vendite per incamerare i profitti – per far “crollare” le quotazioni del 20-25%.
Ma è tutta l’Asia che si dimostra sempre più diffidente nei confronti delle criptovalute. Negli ultimi giorni anche la Cina si prepara a un’ulteriore stretta nei confronti del criptomondo. Dopo la chiusura degli exchange locali e il divieto per le Ico, le offerte di nuove criptovalute, Pechino sarebbe pronta a mettere al bando le attività di mining, il fulcro del sistema su cui si fonda il bitcoin: le aziende attive in questo settore si occupano infatti della certificazione dei passaggi di proprietà di bitcoin mediante la risoluzione di complesse operazioni matematiche che richiedono enormi quantità di potere computazionale e, di conseguenza, di energia. Proprio per questo sono concentrati nel Sud-Est asiatico e in alcune regioni cinesi dove il costo dell’energia è più basso. Già i maggiori “miners” cinesi hanno anticipato un eventuale bando spostando all’estero parte delle loro attività, verso Stati Uniti, Canada e Islanda, paesi freddi che favoriscono il raffreddamento dei supercomputer utilizzati.
Ci ha pensato anche Warren Buffett a stroncare il bitcoin: «Non possiedo e non investirò mai in criptovalute», ha affermato l’”oracolo di Omaha”, sostenendo che, anche se non sa quando, ma è certo che «le criptovalute faranno una brutta fine».