il Fatto Quotidiano, 11 gennaio 2018
O spiega o si ritira
Ieri, leggendo gli altri giornali (i tg Rai ormai fanno un altro mestiere, il più antico del mondo), abbiamo imparato una cosa nuova: la soffiata dell’allora premier Matteo Renzi che nel gennaio del 2015 avverte Carlo De Benedetti dell’imminente decreto sulle banche popolari, facendogli guadagnare in pochi giorni 600 mila euro in Borsa col minimo sforzo, è una notizietta da niente. Molto meno importante della posizione cangiante di Di Maio sull’euro (apertura del Corriere e titolo in prima pagina del Messaggero), delle avventure di Spelacchio (terzo titolo di prima pagina del Messaggero), dell’appello del Pd a Grasso per la Lombardia (apertura di Repubblica), del calendario dei processi a Marra e alla Raggi (secondo editoriale di Sergio Rizzo su Repubblica) e della balla di Gentiloni sul record di occupati dal 1977 (apertura de La Stampa). Infatti il più grave scandalo che abbia coinvolto un leader politico ed ex premier italiano dai tempi di B. non compare sulla prima pagina di Repubblica e neppure nelle restanti 51 del quotidiano edito da De Benedetti. Invece, sulla prima del Corriere, occupa mezzo catenaccio sotto il titolo su Di Maio e l’euro (“Banche, la telefonata di De Benedetti su Renzi”, e chi ci capisce è bravo). Sulla prima del Messaggero, un titolino altrettanto enigmistico: “La telefonata: De Benedetti, Renzi e il caso delle Popolari”. Qualche indizio in più lo fornisce il microtitolo de La Stampa: “De Benedetti: ‘Ho sentito Renzi. Il decreto sulle Popolari passerà’”. E noi, con la nostra prima pagina, chissà che ci credevamo: non è successo nulla.
Poi abbiamo sentito Renzi, intervistato da Massimo Giannini su Radio Capital. Domanda: è vero che avvertì De Benedetti dell’imminente decreto sulle banche popolari? Risposta, si fa per dire: “Lo chieda a De Benedetti visto che è il suo editore… C’era un’agenzia sul fatto che avremmo fatto quella riforma”. La prima frase è ben oltre i confini della realtà, in bocca a un leader che ha fatto il premier per quattro anni e ora si candida a rifarlo, dunque dovrebbe chiarire ogni suo comportamento ai cittadini-elettori; tantopiù che a De Benedetti non c’è nulla da chiedere, visto che la sua versione l’ha già fornita in diretta nella telefonata del 16 gennaio 2015 con cui annunciò al suo broker che il decreto sulle Popolari “passa, ho parlato con Renzi ieri, passa”, entro “una o due settimane”. Ora è Renzi che dovrebbe dire a che titolo incontrò l’Ingegnere il 15 gennaio, cinque giorni prima il varo del decreto, e come si permise di passargli informazioni così riservate, venendo meno ai suo doveri di riserbo e di imparzialità.
La seconda frase (“C’era un’agenzia sul fatto che avremmo fatto quella riforma”) è una menzogna. L’unico lancio Ansa sul tema, precedente l’incontro Renzi-De Benedetti, è del 3 gennaio, e non dice né che il governo farà un decreto, né che è questione di giorni. Anzi, tutto il contrario: “Il governo starebbe studiando di lanciare in primavera la riforma del settore – un intervento legislativo richiesto da decenni ma mai varato – di fatto per trasformare le banche popolari in spa”. Dunque dalle agenzie De Benedetti non saprebbe nulla di ciò che invece comunica con grande certezza e con molti dettagli (decreto, tempistica ravvicinata e abolizione del voto capitario) il 16 gennaio al suo broker Gianluca Bolengo: “Il governo farà un provvedimento sulle Popolari per tagliare la storia del voto capitario nei prossimi mesi… una o due settimane”. Anche Bolengo sa del decreto: “Se passa un decreto fatto bene (le azioni delle popolari in Borsa, ndr) salgono”. Infatti l’Ingegnere gli dà mandato di fare incetta di azioni prima che il decreto venga varato (quattro giorni dopo, il 20 gennaio) e annunciato (la sera del 16). E si mette in tasca 600 mila euro. Lo stesso fanno altri pochissimi fortunati destinatari delle soffiate governative, accumulando un totale di 10 milioni. Il che non sarebbe avvenuto se la riforma, com’era normale, avesse seguito l’iter ordinario del disegno di legge (non c’era alcuna necessità né urgenza, per una norma attesa da decenni), con un ampio dibattito parlamentare che avrebbe richiesto tempi lunghi e posto tutti gli investitori sullo stesso piano. Ma, senza decreto, De Benedetti e gli altri pochi raider avvisati non avrebbero potuto fare il colpaccio.
La prova è proprio in un’Ansa diramata alle 17.58 del 16 gennaio, a Borse chiuse, quando De Benedetti ha già acquisito le azioni delle popolari tramite Bolengo. Il 16 gennaio, sempre l’Ansa, alle 17.58: “In arrivo norme per riformare la governance delle banche popolari e del credito cooperativo (Bcc) e favorire un consolidamento del settore. Secondo quanto si apprende da diverse fonti le misure sarebbero contenute nel provvedimento ‘Investment compact’ che il governo varerà la prossima settimana”. L’unico lancio Ansa con le informazioni precise sul provvedimento e la sua tempistica, dunque, è ininfluente ai fini dell’affarone dell’Ingegnere, che sa già tutto dal giorno prima. Il che aumenta la rilevanza della soffiata di Renzi che gli ha permesso di mettere a segno la speculazione nell’ultima finestra utile prima che inizino a circolare le voci sulla riforma. Per speculare su titoli quotati, è decisivo avere informazioni privilegiate prima degli altri. Se viene annunciato un decreto su materie finanziarie, cioè con un impatto sui prezzi dei titoli, è realistico aspettarsi che il provvedimento verrà convertito in legge dal Parlamento così come è stato scritto dal governo, altrimenti si creerebbe il caos. Quindi la fase rilevante ai fini dell’investimento è quella dell’annuncio del decreto: è quello il momento di comprare i titoli delle banche che ne saranno avvantaggiate e vendere quelli degli istituti che ne saranno penalizzati.
Se invece fosse stato annunciato un ddl, capire quali titoli comprare sarebbe stato molto più complicato: ogni emendamento in Parlamento avrebbe potuto creare o cancellare opportunità di investimento, rendendo molto più rischioso scommettere in anticipo. Il finanziere scommette solo se sa che le informazioni avute all’inizio dell’iter legislativo saranno ancora valide alla fine, così può stabilire subito cosa e quanto comprare: proprio il caso del decreto Renzi, che entrando in vigore subito non avrebbe rischiato modifiche successive fino alla conversione in legge. Ciò che conta per De Benedetti non è tanto sapere che ci sarà una riforma, ma che avverrà per decreto, con alle spalle tutto il peso politico del governo Renzi (allora fortissimo).
Ora, in tutto il mondo civile, questo scandalo porterebbe i protagonisti in tribunale (e i politici alle dimissioni). Invece siamo in Italia, anzi a Roma, dove la Procura ha trovato il modo di non indagare né intercettare Renzi e De Benedetti, e di inquisire il solo Bolengo (perché è l’unico a dire “decreto”), per poi chiedere subito di archiviarlo perché – scrive il pm, molto spiritoso, al gip – “utilizzava in modo del tutto generico e, palesemente, senza connotazione tecnica, la parola ‘decreto’”. Cioè diceva decreto, ma non voleva dire decreto. Fantastico. Dunque, salvo che il gup che cova la richiesta di archiviazione da due anni, senza dire né sì né no, non la respinga o disponga l’imputazione coatta degli altri due, l’inchiesta finirà a tarallucci e vino. Dopodiché bisognerà riscrivere il Codice penale e tutti i dizionari alla voce insider trading: se non è insider questo, non si sa più cosa lo sia. Ma qui c’è una questione politica ed etica grossa come una casa: cosa intende Renzi per “governare”? Rendere un servizio a tutti i cittadini in nome dell’interesse generale, o fare servizietti a pochi compari in cambio di favori o di buona stampa? Finora si pensava che, nel giro renziano, questo concetto familistico e privatistico dello Stato fosse un’esclusiva di babbo Tiziano e di Boschi padre e figlia. Ora si sa che è anche suo. Chissà se nel Pd e nel centrosinistra c’è ancora qualcuno dotato di memoria e coraggio. Memoria per ricordargli la questione morale di Berlinguer. Coraggio per spiegargli con parole semplici che deve andare a casa.