La Stampa, 12 gennaio 2018
Praga, lo scienziato sfida il populista. I cechi scelgono tra Mosca e Occidente
Le elezioni presidenziali in Repubblica Ceca hanno tutta l’aria di un referendum. Si vota oggi e domani per decidere se Miloš Zeman, l’attuale capo dello Stato, rimarrà saldo al potere del Castello di Praga per altri 5 anni o dovrà cedere lo scettro allo sfidante Jirí Drahoš. Ma le elezioni decideranno ben altro. La posizione della Repubblica Ceca in Europa, tanto per cominciare, e il ruolo di Praga tra Alleanza Atlantica e quella stretta amicizia con Putin. Non solo: i cittadini cechi esprimeranno con il voto anche la loro aderenza o meno alla politica populista anti migranti di Zeman che vede negli «invasori» la promessa di un’imminente sharia.
Il voto a Zeman significherebbe rinsaldare l’accordo tra il presidente e il premier Andrej Babis, il politico miliardario, capo del movimento populista dei «cittadini scontenti» (Ano 2011) e vincitore delle scorse elezioni politiche, il cui governo non è ancora riuscito a ricevere la fiducia della Camera, ma sempre fermamente sostenuto dal presidente in carica. L’impressione dunque è che il destino dell’uno sia strettamente legato a quello dell’altro.
Zeman, il grande favorito con 42,7% di consensi, 73 anni, ex leader socialdemocratico, è il presidente più filorusso e più filocinese d’Europa. Si dice filoeuropeo, ma non perde occasione per criticare Bruxelles, ed è noto per la sua intransigenza su migranti e Islam. Gran bevitore e gran fumatore, il contrario del politicamente corretto, con una certa inclinazione al linguaggio volgare, che definisce la crisi migratoria «una invasione organizzata per distruggere l’Europa, di persone che non possono integrarsi».
Sembra la sua antitesi Jirí Drahoš, il suo principale sfidante, 68 anni, uno scienziato, professore universitario, ex presidente della Accademia delle Scienze della Repubblica ceca, al quale gli ultimi sondaggi attribuiscono il 28% dei consensi. Drahos – moderato, filoeuropeo, dall’immagine cristallina, ma senza alcuna esperienza in politica – nell’eventuale ballottaggio potrebbe avvantaggiarsi dell’effetto polarizzazione, vista la tendenza del Presidente in carica a spaccare l’elettorato. E Jirí Drahoš lo ripete dalla campagna elettorale: non sosterrà mai un premier (Babis), secondo uomo più ricco della Repubblica, «macchiato dalle accuse di frode per 2 milioni di euro ai danni dell’Ue»: avrebbe finanziato con fondi europei la costruzione del suo centro conferenze e la sua holding agrochimica. Per questo Drahoš si impegna a diventare il garante dell’«autorità morale» contro un presidente che promuove un «clima di volgarità, incompetenza e corruzione». E l’accadimico promette di ribaltare il rapporto «troppo amichevole» con la Russia, e con questo riaffermare l’impegno con l’Europa e la Nato.
Drahoš vuole rafforzare l’orientamento pro-occidentale della Repubblica Ceca in contrasto con la sua storica simpatia con l’alleanza filo-patto di Varsavia, quando il Paese faceva parte della Cecoslovacchia. Con il crollo del muro di Berlino, mentre uno dietro l’altro crollavano i regimi comunisti dell’Europa dell’Est, l’allora Cecoslovacchia celebrava la sua Rivoluzione di velluto che era riuscita a rovesciare il regime senza violenza. Con la separazione pacifica dalla Slovacchia (1993) la Repubblica Ceca divenne un alleato chiave degli Stati Uniti, entrando nella Nato negli Anni 90 e nell’Unione Europea nel 2004. Ma l’amicizia e il passato condiviso con Mosca sono ancora forti. Tanto che nel centenario dell’indipendenza nata dalla dissoluzione dell’impero austro-ungarico Zeman tra gli applausi ha liquidando il mito di Alexander Dubcek, il protagonista della Primavera di Praga, come «un fifone, che all’arrivo dei sovietici se la fece addosso» e ha celebrato i dissidenti affermando: «Macché “Charta 77”. L’unico che dobbiamo ringraziare per la caduta del regime è stato Michail Gorbaciov».