La Stampa, 12 gennaio 2018
Intervista a Olivier Roy: «Non è una rivoluzione. Come in Iran, il ceto medio ha paura della povertà»
In Tunisia siamo di fronte a una nuova rivoluzione dei gelsomini? Forse l’avvio di una nuova primavera araba anche altrove? Olivier Roy, politologo, orientalista ed esperto d’islam, scuote la testa. «Le proteste attuali – sottolinea – non si possono paragonare a quelle del 2011. Allora ci fu una rivoluzione a 360 gradi che rimetteva in causa la dittatura di Ben Ali e la politica in generale. Quella di oggi è una rivolta per mangiare, per migliorare il livello di vita: si manifesta contro la pauperizzazione che tocca pure una parte del ceto medio».
Non prova, comunque, un briciolo di amarezza di fronte alla crisi di un Paese, la Tunisia, che è praticamente l’unico ad aver saputo creare una democrazia dopo la primavera araba ?
«Questa, però, è una visione troppo occidentale. La democrazia non si traduce per forza nello sviluppo economico. Questo nel 2011 era considerato inevitabile, perché si metteva fine alla corruzione di Ben Ali e perché il turismo si sarebbe sviluppato. Ma tale attività è stata distrutta dal jihadismo. E il regime attuale, senza toccare i livelli di quello precedente, è comunque molto corrotto».
Insomma, la rivolta attuale è economica e non politica ?
«Certo. Ed è è generalizzata, ormai riguarda diversi centri in tutto il Paese. E non è politica, nel senso che i rivoltosi non chiedono un cambiamento di governo o di regime. C’è una crisi economica, quello è il problema. E non esiste una prospettiva politica alternativa, a causa della coalizione al potere in Tunisia: i due principali partiti, Nidaa Tounes, quello laico, e Ennahdha, la formazione islamista, si sono alleati e si sono spartiti il potere. E hanno riprodotto il solito nepotismo, la corruzione, gli amici degli amici. Quanto a Moncef Marzouki, che fu presidente ad interim dopo la rivolta del 2011, non è riuscito a costituire un suo partito, che avrebbe potuto rappresentare un’alternativa».
E quindi?
«Alla gente non resta che rivoltarsi contro i politici in generale. Lo si è visto anche in Brasile. Non c’è bisogno per forza di pensare a un Paese arabo».
L’islamismo è completamente estraneo alle proteste?
«Sì, assolutamente. Siamo ancora noi europei a proiettare sui Paesi arabi una visione per cui l’islam radicale si ritroverebbe sempre alla testa delle rivolte popolari. Ma in Tunisia l’Ennahdha fa parte della coalizione al governo. Alle ultime elezioni, gli europei interpretavano la realtà del Paese opponendo i laici buoni agli islamisti cattivi. Ma poi i due si sono alleati. E non ci si capisce più niente. Pure in Marocco gli islamisti sono al governo. E anche lì, se ci saranno delle proteste, non saranno fomentate da loro».
In Tunisia il premier Yussef al-Shaed come può reagire?
«Per il governo è difficile dare una risposta. Possono prendere qualche misura specifica ma non dispongono delle risorse necessarie per migliorare davvero la situazione economica. Non hanno i soldi per sovvenzionare alcuni alimenti di base e far scendere i prezzi artificialmente, come si faceva sotto Mubarak in Egitto. Oppure come si fa ancora oggi di tanto in tanto in Algeria. E i sauditi non manderanno qualche miliardo per risolvere la crisi. Non ci possono proprio sperare».
C’è qualcosa di simile oggi in Tunisia rispetto a quanto avvenuto nelle scorse settimane in Iran?
«Sì. Innanzitutto, in entrambi i casi, il ceto medio si considera vittima dell’aumento dei prezzi e della situazione economica. Ed esiste un altro elemento in comune: per il momento non ci sono una valenza e una prospettiva politiche. Nel 2009 in Iran si manifestava per avere elezioni libere, la rivolta era politica. E nel 2011 lo era anche in Tunisia. Oggi le proteste non portano un messaggio politico, né in un caso, né nell’altro. Per questo sono sempre come fuochi di paglia. E, almeno per ora, possono essere represse più facilmente. Bisogna vedere, però, quello che succederà in una fase successiva. E le prospettive in Tunisia e in Iran sono diverse».
In che senso?
«In Tunisia il malcontento popolare potrebbe trovare una nuova espressione politica: potrebbe nascere un nuovo partito, grazie alla democrazia introdotta nel 2011. In Iran, invece, un’alternativa di questo genere è impensabile. Sì, è la differenza tra una democrazia e una dittatura».