La Stampa, 12 gennaio 2018
Tunisia: tra i giovani disoccupati e ribelli. «Noi in piazza sognando l’Italia»
Non ci sono foto del martire di lunedì qui a Tebourba, 25 mila anime a nord-ovest di Tunisi dove molti non conoscono neppure il suo nome. Khomsi Yafrni aveva 45 anni, era disoccupato, è morto durante le proteste per il carovita.
Ma, nonostante il quinto giorno di scontri con oltre 600 persone arrestate e l’esercito in campo, non sembra candidato alla fama di Mohammed Bouazizi, l’icona della rivoluzione del 2011.
«Mercoledì il premier Chahed sarebbe venuto a trovarci se non fosse stato fermato dalla polizia all’ingresso della città per problemi di sicurezza, i ragazzi urlavano “degage” (vattene)» ci dice il fratello maggiore Nourredine, pochi denti, mani callose, gilet imbottito sulla felpa con gli orsetti. La casa dei Yafrni è un misero cubo bianco a 500 metri dalla strada dove l’uomo è stato ucciso durante l’assalto al palazzo del governo locale. In terra vedi i vetri delle molotov, ogni giorno nuovi.
Sul marciapiede opposto al governo locale c’è un caffè senza insegne, resti di antiche maioliche alle pareti, tavoli sgangherati e una manciata di avventori, tutti sui vent’anni, tutti pronti a emigrare, tutti favorevoli alle proteste perché il presente è una prigione da far saltare. «Sono stato a Perugia 10 anni finché la primavera scorsa mi hanno espulso perché ero irregolare, ma appena rimetto insieme 2 mila euro m’imbarco da Kelibia, qui vicino, e ci riprovo» racconta Fauzi, 36 anni. In attesa del sogno europeo, concorda la platea, abbasso la finanziaria e viva l’era Ben Ali, quando almeno «10 dinari significavano mangiare, mentre adesso bastano appena per le sigarette e un caffè».
Tebourba, che agli storici della II guerra mondiale evoca l’omonima battaglia tra le forze alleate e quelle dell’Asse, ha visto centinaia di suoi figli prendere la via del Mediterraneo. Anche Khomsi Yafrni era venuto in Italia per tornare più povero di prima tra i concittadini che campano di agricoltura, carote, olive, carciofi berberi.
«Il mio Wael va ogni mattina a Tunisi per qualche lavoretto da muratore ma i trasporti sono scarsi, deve prendere il pulmino che gli costa 5 dinari, un quarto della paga giornaliera» spiega mamma Aziza, velata come quasi tutte le donne. Si aggira con una sola busta tra i banchi del suq, prezzi più alti di due anni fa ma non altissimi a parte il pesce, sardine comprese, che costa ormai il doppio. Il contadino Mostafa le ripete che non ne ha colpa: «Sono aumentati i fertilizzanti, i macchinari, se lo Stato non investe qui industrializzando la raccolta dobbiamo fare da soli e questi sono i risultati».
I risultati sono l’apatia e la frustrazione dei più giovani, di cui oltre uno su tre è disoccupato, che da una settimana si concretizzano in rabbia sanculotta. Se la politica fa il suo gioco a Tunisi qui resta sullo sfondo, non ci sono manifesti anti-governativi dell’opposizione né la polemica tra la maggioranza e la sinistra del Fronte Popolare che pure ha votato il budget 2018 e nemmeno gli slogan contro i tagli dovuti al Fondo Monetario in cambio del prestito quadriennale di 2,9 miliardi di dollari: c’è una massa grigia che raccoglie il disagio nazionale, ma preme per andarsene dal Paese con buona pace della transizione democratica.
«I giovani non sono contenti della situazione e hanno il diritto di protestare contro la legge di bilancio ma in modo civile e senza bruciare auto o bancomat, questa volta diversamente dal 2011 la soluzione al legittimo malcontento popolare sarà politica ed economica» ci dice Wided Bouchamaoui, presidente degli imprenditori e pilastro del quartetto per il dialogo nazionale tunisino premiato nel 2015 con il Nobel per la pace. A Tebourba però, l’aria è grave come prima della pioggia.
«È la controrivoluzione» sentenzia il maestro Rashid davanti alla stazione risalente al 1878. Discute con un gruppo di amici pendolari come lui, cappotti lisi, sui cinquanta, i padri delle piazze incandescenti. Yasser fa il guardiano in un garage, 300 euro al mese se va bene: «Succede sempre di sera, appena fa buio vanno in strada a tirare sassi, molti sono ragazzini di 14 anni, non sanno neppure che sotto Ben Ali si veniva torturati per molto meno». Il gruppo non fa mistero di simpatizzare per Ennahda, i Fratelli musulmani tunisini che governano in coalizione con i liberali di Nidaa Tounes. Ironia della sorte vuole che alcuni di loro siano tornati dopo il 2011 a Tebourba, antica roccaforte islamista tanto da essere abbandonata da Bourghiba al suo destino di sottosviluppo rurale, mentre i diciottenni bramino la fuga proprio ora.
«Degage, degage»: il coro si leva dalla piccola piazza dei martiri, tra la chiesa e l’incrocio per Tunisi sovrastato da una gigantografia che non appartiene a Bouazizi né tantomeno a Yafrni, ma all’oriundo militare Akrounben Salah ucciso in un attacco terrorista nel 2015. È il momento: un uomo adulto s’inginocchia mimando con una bottiglia il gesto di darsi fuoco, una quindicina di ragazzi inveiscono, un secondo cerchio di spettatori segue la scena. In tutto saranno meno di 60 persone ma altrettanti poliziotti sono appostati nei blindati.
È un déjà-vu, ragiona un impiegato nel bar La Cabana: «A un certo punto i manifestanti si allontano da queste strade grandi alla francese e vanno verso la medina araba, dove in caso di scontri è più facile scappare tra i vicoli labirintici».
Tunisi sembra assai più lontana dei 40 chilometri reali costeggiati da venditori di finocchi, banchi di scarpe, ulivi soffocati dalla spazzatura. È qui in provincia e nelle banlieues che, come nota il ricercatore Hamza Meddeb, l’assenza della classe media dalle piazze si nota davvero. Anche per questo il nome Khomsi Yafrni sembra sospeso, vittima del presente, morto al buio com’era vissuto.