Avvenire, 11 gennaio 2018
Valerio Mastrandrea, con quella sua aria sempre insoddisfatta, parla della nuova fiction “La linea verticale”
Se un attore interpreta il ruolo di un suo coetaneo quarantacinquenne che improvvisamente scopre di essere ammalato, e recita per quasi tutta la durata della fiction ( La linea verticale, il sabato su Raitre in prima serata, dal 13 gennaio, ma è già disponibile su Rai Play) sdraiato in un letto d’ospedale, una delle domande che viene spontaneo fargli è quella sul suo rapporto con la malattia.
Valerio Mastandrea, che lo immagina, affronta subito il discorso: «Invecchiando, il mio rapporto con la malattia peggiora. Prima a un mal di testa non facevo nemmeno caso, ora sì. Pensavo che, andando avanti con gli anni, sarebbe stato tutto più facile e, invece, sento venire meno le certezze muscolari e non solo. Anche i colpi della vita che ti arrivano di riflesso come nel caso che raccontiamo ne La linea verticale, qualche reazione te la provocano».
Perché parla di colpi della vita? Non è soltanto una fiction?
«No, si tratta di qualcosa che è successo davvero a Mattia Torre, sceneggiatore e regista della serie, che ha deciso di raccontarlo in questo modo. Lui ed io ci conosciamo da quindici anni, siamo amici e abbiamo anche condiviso dei lavori teatrali che, per me, è come andare in guerra. Sicuramente sul set sono stato condizionato dal fatto che quello che stavo raccontando fosse accaduto davvero ad un amico».
Luigi, il protagonista di La linea verticale scopre di avere un tumore da un normale controllo di routine.
«E la sua vita viene travolta mentre sua moglie è incinta del loro secondo figlio. L’unico modo per affrontare un personaggio che sentivo così vicino è stato quello di lasciarmi travolgere da lui di pancia e non di testa. Non mi sono fatto domande, mi sono abbandonato al fatto che queste situazioni esistono. Per questo, come gli spettatori vedranno, Luigi è sostanzialmente uno che sta nel suo letto d’ospedale e guarda gli altri, non è mai il centro dell’azione. Ad un certo punto diventa lui stesso il pubblico».
Non è certo stato un ruolo facile da interpretare...
«Decisamente no. Quando la serie finirà, ce la porteremo dentro come un’eccezione del nostro mestiere: la trasposizione di qualcosa di doloroso per tutti noi».
Con La linea verticale però si ride anche parecchio, grazie a personaggi surreali come il medico cialtrone, il paziente che pensa di saperne più dei dottori e, persino, il cappellano dell’ospedale a dir poco bizzarro.
«Perché non conta tanto il tema che affronti, ma come lo affronti. Noi lo abbiamo trattato con uno sguardo beffardo, che vuol dire farsi beffe anche delle cose più tremende, senza però rinunciare a lasciarsi andare alle emozioni».
Nelle esperienze più difficili, come appunto la malattia, la fede può confortare?
«Invidio molto chi ce l’ha, soprattutto nei momenti difficili. La mia idea di conforto è la voglia di non rimanere da soli e la possibilità di avere vicino persone che ti vogliono bene».
Con questa serie lei torna alla fiction tv di cui non è mai stato un grande frequentatore.
«Per piacere, scriva che, se la Rai volesse, io farei per tutta la vita Buttafuori, la sitcom che ho fatto nel 2006 con Marco Giallini. Eravamo noi due fuori, all’ingresso di una discoteca. Lo faccio senza compenso, mi basta quello che serve per pagare la rata di mutuo che è pure bassa. A parte questo, è vero che non ho mai fatto molta fiction. Un po’ perché per fare i biopic, le biografie di grandi personaggi, ci sono colleghi molto più bravi di me e un po’ perché quando mi hanno proposto qualcosa avevo già altro da fare».
Non sarà anche perché la fiction è stata considerata, soprattutto in passato, la sorella minore del cinema? Molti attori l’hanno snobbata per questo.
«Forse all’inizio c’è stato anche questo: il rifiuto di fare prodotti pensati solo per accontentare il pubblico quando invece la televisione si presta, molto più del cinema, a raccontare la realtà da diverse angolature».
Come sceglie i ruoli che interpreta?
«In base a quello che mi va di fare in quel momento e alla sintonia con chi me li propone. Ma non pensi che sono uno di quelli che tutti gli suonano e lui non risponde mai. Ho fatto anche cose che non mi andava di fare e ho sofferto».
Ad esempio?
«Diciamo i film “alimentari”, quelli grazie ai quali puoi permetterti di fare quelli che, invece, ti piacciono».
Ha iniziato la sua carriera come ospite alMaurizio Costanzo show.
«Allora avevo 19 anni e non sapevo di voler fare l’attore. Studiavo all’università, lingue, io che non parlo nemmeno l’italiano… Dopo due anni ho conosciuto alcune persone tra cui Vera Gemma con cui ho fatto un’opera teatrale. I primi tempi, però, la popolarità guadagnata con il Costanzo show è stata un ostacolo. La gente pensava: “Ora questo che vuole?”. È stato difficile recuperare credibilità».
Perché ha l’aria perennemente insoddisfatta?
«Perché lo sono».