Libero, 10 gennaio 2018
Quando l’arte contemporanea trasforma le chiese in aspirapolvere
C’è voluta l’intelligenza tagliente di Angelo Crespi per prendere di petto la bruttezza disperante delle nuove chiese. In Costruito da Dio (Johan & Levi, pagg. 140, euro 11), esse sono poste a confronto con la magniloquenza, pretenziosa quanto vacua, dei musei, cattedrali laiche d’una religione globale, il culto dell’arte contemporanea. D’altra parte, a ideare le une e gli altri sono sempre più spesso le medesime archistar, che non possono esser ritenute le sole responsabili di cotanto squallore: non si riflette mai abbastanza sul ruolo centrale svolto dal committente, in questo caso le gerarchie ecclesiastiche.
L’ansia nuovista del Concilio Vaticano II non ha trascurato l’edilizia religiosa. Nelle direttive emanate in quest’ambito dalla Cei, si distinguono le note pastorali redatte a fine Novecento dal cardinal Luca Brandolini. La tensione al trascendente s’è dispersa nella sociologia: in una prosa da piano regolatore di provincia, nulla si dice sulla forma, preferendo indicazioni mestamente funzionali, improntate a un minimalismo pauperista. Crespi, per mostrarne l’inadeguatezza, le confronta con un documento sullo stesso tema, risalente a qualche secolo fa: le disposizioni pubblicate nel 1577 da Carlo Borromeo, summa dell’estetica tridentina. Da una parte la magnificenza del barocco, dall’altra lo smarrimento d’ogni identità: «La chiesa era una chiesa nell’apparire dei suoi elementi precipui, la facciata, il campanile, le immagini sacre all’esterno e all’interno, le decorazioni... questo accadeva prima che l’architettura moderna bandisse il decoro al pari del più turpe dei crimini, prima che la furia iconoclasta di liturgisti e architetti ne facesse algidi e spogli contenitori».
È l’eclisse del sacro: ecco il Santo Volto a Torino, opera di Mario Botta, con le sette torri perimetrali e un centro congressi ubicato nella cripta; ecco le supponenti vele in cemento armato di Dio Padre Misericordioso a Roma, di Richard Meier e, di Cino Zucchi, l’anodina Resurrezione di Gesù a Sesto San Giovanni. Massimiliano Fuksas s’è esibito in San Paolo Apostolo a Foligno: un cubo di cemento armato, gelido non soltanto nell’aspetto, al punto che d’inverno, per non battere i denti, le messe sono officiate nella canonica. Emblema delle «chiese aspirapolvere, piscine, frigoriferi», come le definisce Crespi, è il santuario di San Pio a San Giovanni Rotondo, firmato da Renzo Piano, una sorta di smisurato McDonald’s che sembra testimoniare non la fede, ma «un’assenza, il progetto di un vuoto».
Oggi, in un mondo ormai secolarizzato, per emendare i peccati capitali e capitalisti del denaro, i ricchi non erigono più cappelle votive, ma preferiscono associare il proprio nome a un museo. Allo stesso modo si comporta la mano pubblica, in una rincorsa al gigantismo autocelebrativo. I musei, avverte Crespi, «nascono al tempo dell’illuminismo come negazione del sacro», fino a diventare anch’essi, al pari delle chiese che intendevano sostituire, simulacri del nulla: a contare, nelle realizzazioni più celebrate, è il contenitore, non il contenuto. Il rovesciamento della funzione trova il proprio archetipo nel Guggenheim di Bilbao, progettato da Frank O. Gehry. Le mostre e le collezioni che ospita sono un pretesto per giustificare l’ostentazione dell’involucro, come nel Royal Ontario Museum di Toronto, che reca la firma di Daniel Libeskind, al quale Crespi dedica pagine durissime: «Superfici di metallo lucido, teso a creare una sensazione di spaesamento, di depressione, di disgusto». Stroncate senz’appello anche realizzazioni consimili, dal San Francisco Museum of Modern Art al Musée des Confluences a Lione, progettati rispettivamente da Botta e dallo studio Coop Himmelb(l)au, fino alla recentissima Fondazione Prada, dove s’è sbizzarrito Rem Koolhaas (il meglio è il bar stile anni ’50). Un intero capitolo del libro è riservato al Maxxi di Roma, affidato a Zaha Hadid: un’apoteosi dell’inutile.
Costruito da dio, che prosegue l’ottimo Ars Attack del 2013, è una requisitoria appassionata, nutrita di buone letture per esempio Tom Wolfe e Marc Fumaroli che disvela le ossessioni dell’ipermodernità. Si conclude con una visita alla Tate Modern di Londra, il museo d’arte contemporanea più frequentato al mondo. Il cuore dell’antica fabbrica riconverta e ampliata da Herzog & de Meuron è la Turbine Hall, «un orrido cavo, sulfureo ingresso all’Averno, denso di un sacro all’incontrario». Lasciate ogne speranza: una cattedrale, certo, ma votata al maligno.