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 2018  gennaio 11 Giovedì calendario

Diciannove anni senza De André, il Dylan dei carruggi cantore dell’anima

«Cosa avrebbe potuto fare a fine anni 50 un giovane nottambulo, incazzato, forte bevitore, mediamente colto, sensibile alle vistose infamie di classe, vagheggiatore di ogni miglioramento sociale, amico delle bagasce, sposo inaffidabile, musicomane e assatanato di qualsiasi pezzo di carta stampata? Il cantautore». Per spiegare De André ci vuole De André. È suo il ritratto, però non cita la quantità di pensieri che ha suscitato dal 1960 a oggi, e ancora domani, sebbene ne se sia andato 19 anni fa, consumato da un tumore, per vagare in sconosciuti carruggi. È presente perché nessuno lo eguaglia in intensità e varietà. 
Dei tanti De André ognuno ha scelto quello che parla di sé. C’è il testimone dei sentimenti non corrisposti (La ballata dell’amore cieco) e sfioriti (Amore che vieni amore che vai, La canzone dell’amore perduto), l’esistenzialista, l’anarchico, l’antimilitarista (su tutte La guerra di Piero del 64), l’interprete ne La Buona novella dei vangeli apocrifi che riscattano l’uomo o del Sessantotto in Storia di un impiegato; il traduttore prezioso di Brassens (Il Gorilla, Le passanti), suo mito che non volle mai incontrare per paura della delusione, di Leonard Cohen (La famosa volpe azzurra, Nancy, Suzanne), Bob Dylan (Avventura a Durango, Via della Povertà scritta con De Gregori, sboccerà in sodalizio in Volume VIII) o Edgar Lee Masters (il Non al denaro non all’amore né al cielo ispirato all’Antologia di Spoon River).
Tutte le vite che ha attraversato, lui pigrissimo, ancorato a Genova, in grado di sconfinare con la mente, imparare il dialetto dei tangueri di Buenos Aires (il postumo Lunfardia dato a Celentano) e il napoletano di Don Raffaè, e di far pescare alle facce dei marinai i suoni del mediterraneo, creando con Mauro Pagani il primo disco di world music, Crêuza de mä (1984), in dialetto genovese, dopo aver ripassato ossessivamente il dizionario Casaccia.
IL BIOPIC
Chissà quale si racconterà nel biopic Principe Libero (23 e 24 al cinema, 13 e 14 febbraio su Rai1), con protagonista il romano Luca Marinelli. Di sicuro il De André nato nel 1940 da famiglia borghese, che frequentò Lettere e Medicina senza iscriversi, poi Giurisprudenza, mollando prima della laurea per affrontare il mestiere di cantautore in un periodo in cui non gli si riconosceva granché dignità. L’epoca del jazz e della frequentazione con Villaggio, Bindi, Paoli, Luigi Tenco, al quale nel 1967 dedicò Preghiera in gennaio, requiem per un amico e sfida alla Chiesa che voleva negargli il funerale perché morto suicida. Cantava Faber: «L’inferno non c’è, nel mondo del buon Dio». 
LA CENSURA
Fu facile incappare nella censura, a forza di parlare di «preziose» di Via del Campo, Bocche di Rosa che facevano l’amore sopra ogni cosa, e di un Gesù che «morì come tutti si muore». Convinceva Radio Vaticana, ma la Rai lo cassava. La sua poetica fu un laudate hominem che restituiva dignità a emarginati, derelitti e straccioni. Per la fratellanza coi vinti Don Gallo lo infilava nelle omelie, e insieme a Natale sono diventati statuine nel presepe dell’ex ospedale psichiatrico di Quarto. Il prete, compare di marciapiede, diceva: «Le sue canzoni sono la scelta mai sbagliata di occuparsi di vite perdute ma Anime Salve». Quelle rese libere dalla diversità, descritte con Fossati nel 1996. Il disco conteneva Smisurata preghiera, forse il suo testamento artistico, «dove la maggioranza sta come una malattia, come un’anestesia» e chi viaggia in direzione ostinata e contraria porta il suo marchio speciale di speciale disperazione.
L’umanità rintanata nei bassifondi lo ispirò e come nessun altro dai pantani della cronaca nera seppe estrarre ballate. La Canzone di Marinella interpretata da Mina a Canzonissima nel 68 aveva segnato la svolta, ma a Faber non piaceva stare sul palco. Anche fra amici si esibiva a luce spenta, una bottiglia sotto al leggio per farsi coraggio. Però poi, che dischi quelli dal vivo, a La Bussola di Viareggio nel 1975 e con la PFM nel 1979. Per sapere come sarebbe andata con il gruppo progressive si fece leggere i tarocchi da Dori Ghezzi, in simbiosi con lui dal 1974, tuttora guardiana del suo patrimonio. Insieme si godettero il rifugio gallurese dell’Agnata, solo il mare a dividere le due terre a lui care. Detestava il gregge dei conformisti, ma amava le pecore della sua Sardegna. Nel 1979 furono presi entrambi dall’anonima sequestri sarda. Quattro mesi di prigionia su un letto di foglie, con i rapitori che a De André davano del Lei. Li considerò vittime, spinti dalla fame, e li perdonò, sublimando l’esperienza in L’indiano (1981).
POLIEDRICO
Opera vasta, la sua. Passava dagli spiritual alla canzone francese, dalla musica medievale al valzer, inabissandosi nei testi. Roba per pochi che arriva a tutti, anche se il dubbio è che non tutti lo capiscano e che ci si vanti di lui più di quanto lo si ascolti. Cos’è che trasmette? Rigore, autenticità, la sensazione che quella voce da sciamano arpioni il bene e il male dalle viscere di ogni uomo. E uomo era, imperfetto. Da certi racconti alzava troppo il gomito, irrompeva in rabbie incontrollate, era padre assente o troppo ingombrante, al quale Cristiano (figlio della prima moglie Puny) ha rubato il viso. In un brano in particolare Faber si riconosceva, Amico fragile, «Pensavo: è bello che dove finiscano le mie dita debba in qualche modo incominciare una chitarra». Più che bello. Non era sola Fernanda Pivano a ritenerlo il più grande poeta degli ultimi 50 anni. Non il Dylan italiano, semmai Dylan era il De André americano. Così profondo da dare ancora vertigine.