la Repubblica, 11 gennaio 2018
Diecimila sterline agli ambulanti. Così la tutor mise nei guai Regeni
Roma Prometteva di essere un redde rationem. È stato qualcosa di più e di peggio da cui Maha Abdel Rahman, tutor di Giulio Regeni a Cambridge, esce ora nuda nei suoi «non ricordo, non so». Interrogata martedì pomeriggio, alla presenza dei suoi due avvocati di fiducia, in un ufficio dell’università, dal sostituto procuratore di Roma Sergio Colaiocco, da un ufficiale del Ros dei Carabinieri, da un funzionario dello Sco e da uomini della polizia inglese del Cambridgeshire, ha girato in tondo per un’ora e un quarto su almeno tre circostanze chiave dei suoi rapporti con Giulio e sulle modalità della sua ricerca. Ha evitato di fornire qualsiasi spiegazione plausibile su fatti che la coinvolgono e per giunta documentalmente provati da una chat e due e- mail recuperate nel pc del ricercatore. Al punto che, ieri mattina, i suoi uffici e la sua piccola abitazione di 50 metri quadri a Cambridge sono stati messi sotto sopra in una lunghissima perquisizione chiesta dalla Procura di Roma e condotta dalla polizia inglese, al termine della quale le sono stati sequestrati cellulari, pen drive, personal computer e memorie esterne. E questo mentre la stessa università, andando persino al di là di quanto chiesto dalla magistratura italiana, le congelava l’intera posizione informatica (traffico mail e file archiviati sul server dell’ateneo) affinché tutti questi dati possano essere ora copiati e diventare “prova forense” nell’inchiesta.
La Abdel Rahman è e resta una testimone per la giustizia italiana. Gli assassini di Giulio Regeni (mandanti ed esecutori) sono e restano da cercare negli apparati del regime egiziano. Per la giustizia italiana e ora anche per quella egiziana (se non è un falso movimento l’esito dell’ultimo vertice al Cairo tra le due Procure). E tuttavia, la perquisizione e il sequestro dei supporti informatici della Abdel Rahman comunicano evidentemente con una qualche drammaticità non solo il precipitare di una situazione per molti aspetti inedita ( è raro che la cooperazione giudiziaria inglese si spinga al punto di autorizzare la perquisizione di una testimone), nonché la decisione del governo inglese di uscire da un’afasia durata due anni, ma una novità nella ricostruzione dei fatti che hanno portato alla fine di Giulio.
Una circostanza emersa durante l’interrogatorio e che, all’osso, si può raccontare così. La mossa che, oggettivamente, segnò e accelerò il destino di Giulio Regeni, ingrassando la paranoia degli apparati di sicurezza egiziani che lo avevano messo nel loro cono di attenzione, porta la firma della professoressa. Fu Maha, come documenta una mail che Giulio inviò alla madre il 14 novembre del 2015, poco più di due mesi prima di essere sequestrato, torturato e ucciso dai Servizi del regime di Al Sisi, a suggerire a Giulio, inviandogli il link per un’application, di fare in modo che il sindacato su cui stava conducendo la sua “ricerca partecipata” concorresse all’assegnazione di 10 mila sterline messe a disposizione della fondazione Antipode, consentendogli così di finanziare un proprio “progetto dal basso”. Cosa che scatenò gli appetiti dell’allora capo del sindacato degli ambulanti, Mohamed Abdallah, l’uomo che avrebbe tradito Giulio e che di Giulio era appunto la principale fonte di ricerca. La possibilità di accedere a quei soldi, come è noto, sarebbe rimasta sulla carta. Giulio, infatti, dopo averne parlato con Adballah, avrebbe fatto cadere la cosa. Aveva capito, infatti, che l’ambulante stava pensando di utilizzare quel denaro per motivi personali. Di più: quei fondi non solo non erano nella disponibilità di Giulio, ma rischiavano di essere incompatibili con la legge egiziana che vieta il finanziamento diretto o indiretto di sindacati e associazioni.
Ebbene, durante la sua deposizione, la Abdel Rahman non solo non è stata in grado di spiegare perché diede quel suggerimento o perché, essendo egiziana, non ne colse tutti gli elementi di rischio che, al contrario, Giulio aveva ben colto. Ma non è stata in grado di spiegare neppure almeno altre due circostanze per certi aspetti neutre. Ha negato l’evidenza – documentata da una chat di Giulio con un suo amico del 15 luglio 2015 – di essere stata lei a suggerire a Giulio il tema della ricerca. Ha negato di aver mai ricevuto da Giulio, durante il loro incontro del 7 gennaio 2016 al Cairo, i dieci report che rappresentavano il risultato della prima fase del suo lavoro. Ha ribadito come non vi fossero elementi oggettivi di rischio nelle modalità della ricerca di Giulio. Circostanza, questa, in cui i nostri investigatori vedono al contrario una negligenza o un tentativo di coprirla a posteriori. Tanto da aver deciso, tra martedì e ieri, di far compilare a 66 studenti di Cambdridge che prima di Giulio avevano svolto ricerca al Cairo e in Egitto altrettanti questionari che chiariscano quali procedure hanno governato in questi anni il lavoro dell’università. Chi decide i temi delle ricerche, che tipo di rapporti esistono con i tutor, se vi siano mai state pressioni dell’università per condurre le ricerche in Egitto, chi sceglieva i tutor in loco.
C’è infine un ultimo dettaglio che consente oggi di dimostrare come il braccio di ferro che la professoressa Abdel Rahman ha condotto con la Procura di Roma per due anni (sostenuta anche da un pezzo di comunità accademica che si è sentita ferita nella libertà di insegnamento) dissimuli in realtà un quadro assai meno edificante. Quanto meno umanamente. Giulio aveva regalato alla Maha, di cui si fidava, una copia di “Gomorra” di Roberto Saviano. Lo aveva fatto dopo averci pensato a lungo. Come gesto di stima. Martedì pomeriggio, il pm Sergio Colaiocco per verificare l’attendibilità della donna che aveva di fronte le ha chiesto se avesse mai ricevuto un regalo da Giulio. “Non ricordo” è stata la risposta. Come se Giulio fosse stato uno studente qualunque. Lontano nel tempo. Come se la sua vita non fosse finita come è finita.