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 2018  gennaio 11 Giovedì calendario

Quindici ore settimanali per 150.000 euro l’anno

«Pronto dottore, ho la febbre alta e non riesco a muovermi, può passare a casa?». «Non ce la faccio, prenda una tachipirina e resti a letto». In tanti si sono sentiti rispondere così mentre l’influenza iniziava a fare un po’ paura, tant’è che un assistito su quattro al Tribunale del malato lamenta il “no” del proprio medico di famiglia alla visita domiciliare che la loro convenzione prevede avvenga in giornata, se la chiamata è partita prima delle 10, o entro mezzogiorno del giorno dopo in caso contrario. Una recente sentenza della Cassazione ha stabilito che il dottore è perseguibile penalmente per omissione di atti d’ufficio se si rifiuta in casi di urgenza o di pazienti non trasferibili. Ma la legge non è chiara nello stabilire quando la situazione richieda l’intervento d’emergenza a casa.
 
«In questo periodo ricevo almeno 10 richieste al giorno di visite domiciliari, se dicessi sì a tutte non visiterei più in studio», si difende Pierluigi Bartoletti, vice presidente vicario del potente sindacato di categoria, la Fimmg. «Comunque – rincara la dose – nove richieste su dieci sono ingiustificate. Nella maggior parte dei casi ci chiamano solo perché serve il certificato di malattia per tornare al lavoro». Mette le mani avanti anche il segretario nazionale del sindacato, Silvestro Scotti: «A chi dice che non lavoriamo ricordo che nei primi tre giorni dell’anno abbiamo visitato quasi 7 milioni di pazienti».
Resta il fatto che anche chi ce la fa ad andare con le proprie gambe dal dottore non è che stia molto meglio di chi chiede la visita a domicilio.
Visionando sui siti di Asl e Regioni gli orari di apertura di 1.223 studi dei medici di base abbiamo scoperto che mediamente i battenti restano aperti per poco più di 15 ore settimanali. Con gli assistiti delle grandi città più penalizzati di quelli dei piccoli centri. E il tutto per uno “stipendio” che per i medici “massimalisti”, quelli con 1.500 pazienti, arriva a 150 mila euro l’anno, secondo i dati forniti da Vincenzo Pomo, il coordinatore nazionale della Sisac che rappresenta la parte pubblica nel rinnovo della convenzione.
Certo, da questa somma bisogna detrarre le spese per segretaria e affitto dello studio, ma resta pur sempre un compenso vicino ai 110mila di un Primario ospedaliero, che di ore ne fa minimo 38 ed è reperibile di notte e nei festivi. Poi, se c’è da fare una campagna di vaccinazione, assicurare la presa in carico dei cronici con altri medici o quant’altro non previsto dalla convenzione, ecco arrivare altri soldi extra dalla casse regionali.
Nonostante i compensi per contratto, l’orario minimo di apertura è fissato a 15 ore per chi ha più di mille assistiti, 10 ore per chi è sotto questa soglia ma sopra i 500 pazienti e 5 ore per chi ha ancora meno pazienti. Minimi che spesso coincidono con la realtà dei fatti.
A Torino la media è di 13 ore settimanali, con punte minime di 10 e massime di 20. A Milano si sta un po’ sopra le 16 ore, che si riducono a 15 quando il medico lavora in rete con altri colleghi. A Firenze si naviga sulle 13 ore, mentre a Roma la media è di 17 ore di apertura, con orari che vanno da un minimo di 8 ore e mezza a un massimo di 20 e mezza. Le cose migliorano appena in Basilicata, dove la media è di 20 ore. Ma poi si precipita alle 12 ore e mezza di Bari, dove c’è anche chi fa un’apertura giornaliera di mezz’ora. Tanto per far cambiare aria allo studio. Certo, chi è in sala d’attesa va visitato anche se il portone è oramai chiuso. Ma anche aggiungendo un’ora al giorno per i 4 giorni medi di apertura siamo pur sempre su orari formato small.
Il problema, spiegano alla Sisac, si potrebbe risolvere almeno in parte se i medici di famiglia lavorassero in team con i loro colleghi e gli specialisti. Ma, anche se le cose stanno migliorando, solo tra il 15 al 30% lo fa.
Intanto si è aperta la partita per il rinnovo del contratto, con il quale i medici convenzionati, tra aumenti e arretrati, secondo Sisac porteranno a casa 600 milioni. Sperando bastino a farli bussare qualche volta in più alle nostre porte. O almeno a tenere più aperte le loro.