il Fatto Quotidiano, 10 gennaio 2018
Oprah è la Trump dei progressisti
Non che le cose che Oprah Winfrey ha detto nel suo discorso fossero particolarmente originali. Eppure l’effetto delle sue parole, 72 ore dopo, continua a colpire l’America, assumendo i contorni di un evento in un certo senso necessario.
Se ne deve dedurre che a contare sia stato il modo in cui Oprah ha parlato, dal palco dei Golden Globe, con uno slancio energetico privo di ipocrisie e paludamenti che ha provocato nei connazionali la sensazione di assistere a un defining moment, a un momento decisivo nella storia di un Paese ormai cronicamente sull’orlo della crisi di nervi quando si tocca il tasto della leadership e della Casa Bianca. Un lampo ha squarciato il cielo mediatico: potrebbe essere Oprah? Potrebbe essere lei, la figlia di una donna delle pulizie afroamericana e oggi il personaggio più autorevole dello show business d’oltreoceano, a guidare la spedizione che vuole riprendersi l’America da chi l’ha conquistata twittando anatemi? 2020: Oprah vs. Donald Trump. Non potrebbe esserci punto di fusione più incandescente tra la società della rappresentazione e le contemporanee regole della politica, ormai devolute alle apparenze e ai massimalismi. L’imbonitore disadattato che mantiene salda la propria schiera di supporter, convinti che la politica vada fatta così, decidendo su due piedi, contro la donna che imbocca la strada per lo Studio Ovale dopo il fallimento di Hillary Clinton, con l’aggravante d’essere nera come Barack Obama (e sua amica personale), nonché maestra di comunicazione e provetta esploratrice dei cuori americani.
Oprah Winfrey è un prodotto interamente televisivo. La sua escalation transita attraverso l’immensa popolarità del suo talk show, luogo condiviso per le donne americane, dove argomenti anche non convenzionali vengono affrontati con un tocco di sensibilità, sincerità e chiarezza. Questa nera perennemente sovrappeso (ancora adesso che è miliardaria realizza gli spot per Weight Watchers, dovere civile di sorellanza) ha saputo incarnare il migliore modello della normalità americana, senza svilirne i sogni, ma anzi proteggendoli. E la nazione si è affezionata a lei per sempre, regalandole una straordinaria fortuna economica che lei ha amplificato grazie a non comuni doti di manager, basate sulla istintiva competenza quanto ai gusti del pubblico.
La notte dei Golden Globe è il coronamento di questa ascesa: Oprah ha parlato a nome di tutte le donne e gli uomini americani di buona volontà, mettendoci la sua influenza, la sua fierezza, la sua intelligenza e la sua conoscenza del mezzo (un know how pre-social, dunque estremamente generazionale). Il risultato è un’investitura istantanea, che riscrive le regole della politica e sancisce la sua inestricabile contaminazione con l’industria e i linguaggi dello spettacolo.
Il giorno dopo, quello che sembrava l’exploit d’una serata sull’onda dell’entusiasmo, si è trasformato in notizia vera: il discorso della Winfrey, per le emozioni che ha suscitato, vale una autocandidatura alle Presidenziali 2020, quanto quello pronunciato da Barack Obama alla Convention democratica nel 2004. E se le prime notizie sostenevano che Oprah recentemente avesse negato la possibilità di un debutto nella politica attiva, ci ha pensato il suo eterno fidanzato, Stedman Graham –persona seria – a spazzare via i dubbi: “Oprah potrebbe farlo, se l’America glielo chiedesse”. Come Cincinnato: l’America chiama e Oprah risponde.
Potrebbero davvero essersi rotti gli indugi di una corsa che punta a un’elezione lontana 58 mesi, in un Paese che si sta abituando a vivere in perenne campagna elettorale, ossessivo formato della politica contemporanea. Un gesto di teatralità televisiva per un nuovo Yes We Can: possiamo liberarci dell’incubo Trump e ricominciare sulla strada del progresso ragionato di cui Obama era interprete.
Almeno per ora non arrivano smentite: nessuno fa sapere che Oprah è stata equivocata, che non è interessata a un compito di quella portata, che nella sua visione la politica va lasciata a chi la conosce e la fa di lavoro. Perché proprio questo è stato il primo dissenso che, poche ore dopo i fatti, ha raffreddato gli entusiasmi: se Oprah imboccasse la scorciatoia che conduce direttamente dal teleschermo del salotto alla Casa Bianca, non farebbe altro che confermare la visione di Trump e del trumpismo, secondo cui una celebrità capace di vendere bene la propria immagine non deve mettere limiti alle proprie ambizioni, a dispetto dell’assenza di qualsiasi esperienza specifica. Se Oprah o Mark Zuckerberg scenderanno nell’arena delle Presidenziali sarà sancita l’irreversibile rivoluzione della politica, sottraendo Donald Trump dalla casistica delle anomalie. Perché l’America anti-Trump ora sa bene che lo schieramento alla linea di partenza delle primarie democratiche è tutt’altro che entusiasmante: vecchi politici logorati come Bernie Sanders e Joe Biden, radical chic con poche chance come Elisabeth Warren, burocrati narcolettici come Kirsten Gillibrand, neopopulisti di sinistra come Cory Booker. Eppure costoro sono materiale politico, prodotto del dibattito tra programmi, e non star del piccolo schermo pomeridiano.
Qui sta la chiave del problema: nella convinzione ormai dilagata che una persona avviata a un compito di simile responsabilità, possa offrire come garanzia d’adeguatezza il proprio successo, la fama, la popolarità. Oprah è una persona straordinariamente in gamba, che fa e potrebbe fare molto per il suo Paese, anche senza diventarne presidente, solo continuando a essere Oprah. Ma è il pubblico adesso – o almeno una cospicua percentuale di esso, quello complementare a quanti hanno spedito Trump alla Casa Bianca – che col proprio impeto ridefinisce il senso della politica, come prodotto del brodo culturale nel quale è stato allevato. Il comando va a chi sa farsi ammirare, invidiare, a chi accumula fortune, a chi ti suggerisce la frase giusta sotto forma di slogan. Oprah Winfrey che gli scettici del New York Times hanno già ribattezzato la magical solution, come dire la “grande illusione”, possiede quel potere ipnotico. Si direbbe che nessuno ti capisca come lei, nessuno ti commuova e ti tenga sveglio, a dispetto del fatto che sia una bella donnona, ma non più di tante madri di famiglia incrociate al supermercato. Vogliono lei perché la sentono infinitamente più vicina di quelli della politica. E assai più divertente. Per non dire smart. Per cui saprà scegliersi i collaboratori giusti. Ma intanto le chiavi diamole a lei. Nel complesso, in effetti, è quella che si può definire una linea. Con poche note a piè di pagina, ma pur sempre una linea. “È fenomenale. Apre porte e infrange barriere”, dice di lei la stratega Donna Brazile. “Sempre che le vada di farlo”.
Di sicuro, se per caso le cose andassero così, il primo a doversi preoccupare seriamente è Donald Trump. Uno che pensava di non avere rivali in un genere del quale si considerava l’inventore. Ma un dilettante, al cospetto di Oprah.