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 2018  gennaio 10 Mercoledì calendario

Un mostro sotto l’Appennino. Così il magma crea terremoti

C’è un mostro che ribolle sotto l’Appennino. Di solito sonnecchia, ma guai se si sveglia. È un mostro fatto di magma, che può provocare terremoti devastanti, ancora più grandi di quelli che si susseguono in un’area dell’Italia fragile come un castello di carte costruito su un’altalena. 
Lo hanno scoperto gli scienziati dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia e del dipartimento di Fisica e Geologia dell’università di Perugia, che hanno realizzato uno studio pubblicato sull’ultimo numero della rivista Science Advances («Seismic signature of active intrusions in mountain chains») che rivoluziona l’interpretazione degli eventi sismici che si verificano lungo la dorsale appenninica e fa trasecolare i geologi di tutto il mondo.
I terremoti di quest’area dell’Italia meridionale, infatti, sono da sempre ricollegati – come da manuale – alle fratture della crosta terrestre, le cosiddette faglie, lungo le quali si accumula la pressione e di conseguenza l’enorme quantità di distruttiva energia provocata dalle potentissime spinte. Non è però quello che accade nell’Appennino Meridionale. Gli scienziati italiani hanno infatti individuato sotto l’area del Sannio-Matese, tra la Campania orientale e il Molise, una sorgente di magma che risalendo come su un ascensore può provocare terremoti devastanti: «Le catene montuose – spiega Francesca Di Luccio, capofila del gruppo di ricerca – sono generalmente caratterizzate da terremoti riconducibili all’attivazione di faglie che si muovono in risposta a sforzi tettonici. Tuttavia, studiando una sequenza sismica anomala, avvenuta nel 2013-14 nell’area del Sannio-Matese con magnitudo massima 5, abbiamo scoperto che questi terremoti sono stati innescati da una risalita di magma nella crosta tra 15 e i 25 chilometri di profondità. Un’anomalia legata non solo alla profondità dei terremoti di questa sequenza, avvenuta tra i 10 e 25 chilometri, rispetto a quella più superficiale dell’area – inferiore a 10-15 chilometri – ma anche alle forme d’onda degli eventi più importanti, simili a quelle di terremoti in aree vulcaniche».
Gli strumenti registrarono la prima scossa che fece ballare i monti del Matese e si fece avvertire perfino a Napoli, distante un centinaio di chilometri, il pomeriggio del 29 dicembre 2013. La magnitudo era 5, leggermente inferiore a quella di 5.5, a partire dalla quale gli eventi sismici diventano distruttivi. Nelle scosse successive, susseguitesi in poche ore, gli ipocentri salirono rapidamente fino alla profondità di 10 chilometri lungo due linee dritte, ciò che suscitò negli scienziati l’intuizione che un fluido risaliva verso l’alto ai margini di una frattura. A dimostrarlo anche il fatto che dell’anidride carbonica arrivò in superficie come gas libero o disciolto nell’acqua. «Questo risultato – spiega l’altro capofila della ricerca, Guido Ventura – apre nuova strade all’identificazione delle zone di risalita del magma nelle catene montuose e mette in evidenza come tali intrusioni possano generare terremoti con magnitudo significativa. Lo studio della composizione degli acquiferi consente di evidenziare anche l’anomalia termica». Ci sono altre grandi catene montuose ad alta sismicità a cui gli studi italiani sulla risalti del magma potrebbero essere applicati, dalle Alpi all’Himalaya, dalle Ande alla cordigliera nordamericana fino a Zagros, tra Iran e Iraq.
Un’altra conseguenza di questo movimento anomalo di magma e di gas è che quella zona dell’Italia potrebbe assistere alla nascita di un nuovo vulcano attivo. Non in tempi brevi, ovviamente: «Se l’attuale processo di accumulo di magma nella crosta dovesse continuare, è possibile che in tempi geologici, ossia migliaia di anni, si possa in effetti formare una struttura vulcanica», preconizza Giovanni Chiodini dell’Ingv. Nulla si crea, tutto si distrugge. Ma non c’è fretta.