la Repubblica, 10 gennaio 2018
L’amaca
Come non unirsi all’appello di artisti e intellettuali contrari al carcere (pena spropositata) per i graffitari o writers che dir si voglia? E d’altra parte: come aiutare i graffitari meno dotati – diciamolo: una robusta maggioranza – ad astenersi, conservando i muri cittadini in quello stato di anonimo grigiore a noi tanto caro? Ci vorrebbero, nel caso si riesca a risalire dallo sgorbio al suo autore, pene alternative, anzi neanche pene, semmai incentivi alla gratificazione sociale, tipo accompagnare i vecchi a fare la spesa, cura del verde, pulizia dei marciapiedi. Cose bellissime. Quanto basta per ragionare sul fatto che l’arte NON è un diritto, ma un dono, un’eccezione, una fatica, un lavoro, una botta di culo, insomma tutto tranne che un diritto. Nonché sul fatto che il paesaggio è un bene pubblico, e dunque tatuarlo a propria immagine è un tipico caso di privatizzazione.
L’idea della galera è torva e disperata, come quasi tutte le intenzioni repressive. Però qualcuno che faccia notare con partecipazione umana, perfino con delicatezza, che il brutto è brutto per sua oggettiva forza, e non esiste soggettività (eufemismo per: narcisismo) in grado di trasformare un cesso di disegnino o di tag o di “ehi, ci sono anch’io!” in qualcosa di interessante anche per gli altri, beh questo qualcuno ci vorrebbe. Il problema è che nessuno riconosce a nessuno l’autorevolezza di dirgli: guarda, per il tuo bene, è meglio che la smetti.
Vale per gli uomini di potere (un caso per tutti, il senatore Razzi), figurarsi per un ventenne incazzato.