La Gazzetta dello Sport, 10 gennaio 2018
La svolta di Kim Jong-un. «Può esserci un ruolo della Cina»
All’improvviso, il disgelo. Dai test missilistici con contorno di minacce e di pulsanti nucleari agli axel dei pattinatori sul ghiaccio, la strada è stata incredibilmente breve. Le Coree sono tornate a parlarsi e almeno questo all’Olimpiade e alla diplomazia sportiva, bisogna riconoscerglielo. Ha funzionato il lavoro ai fianchi del Cio e degli organizzatori dei prossimi grandi eventi sportivi, preoccupati dall’ipotesi di una rottura irreparabile? Che cos’è che ha determinato la svolta di Kim Jong-un?
LA CINA È VICINA Fabrizio Maronta, redattore della rivista Limes e attento studioso della storia dello scacchiere coreano negli ultimi decenni, fa tre ipotesi: «In primo luogo, la Cina può aver giocato un ruolo importante. Da una parte Pechino non ha mai applicato le sanzioni, dall’altra però la Corea del Nord, con le minacce di Kim, è sempre più un alleato scomodo. É ipotizzabile che ci sia stata una pressione». Insomma, calmatevi, non esagerate. «Secondo punto: il potere di Kim all’interno della Corea, anche grazie agli stessi test missilistici, si è consolidato. Era arrivato giovane al potere, gli avevano messo vicino uno zio reggente, oggi l’ha esautorato. Dunque, ora abbassa i toni». Poi, l’America. «Può essersi messo paura di Trump. Ma il gesto distensivo della partecipazione olimpica potrebbe anche essere un modo per prendere tempo».
PACE MAI FIRMATA Stati Uniti, Russia, Giappone, Cina. «La penisola coreana è sempre stata un ambito di confronto Est-Ovest e un teatro di scorribande cinesi e giapponesi». Anche l’Olimpiade lo ha imparato, come quando un maratoneta coreano, Son Kee-chung, nel 1936 vinse l’oro gareggiando per il Giappone, il Paese occupante. «Finita la guerra, arrivati gli americani, si giunge a un nuovo conflitto. La Rivoluzione cinese non tollera una presenza statunitense così massiccia nella zona, l’Unione Sovietica sceglie un comandante militare, il nonno di Kim-Jong Un, Kim Il Sung, e lo mette a capo di un regime fantoccio. Che invade il Sud, conquista Seul, prende Busan. A quel punto, gli Usa contrattaccano. La guerra in tre anni porterà quasi tre milioni di morti. Una guerra interrotta solo da un armistizio, la pace non è stata mai firmata».
TAVOLO E PARALLELO Un armistizio stipulato proprio a Panmunjeom, lo stesso luogo dei colloqui olimpico-distensivi di ieri. «Il punto in cui in tutti questi anni ognuno ha guardato l’altro. Due palazzi che si fronteggiano, in mezzo una serie di baracche e all’interno delle baracche un tavolo che corre sulla linea del trentottesimo parallelo. Da una parte quelli del Sud, dall’altra il Nord. In alcuni momenti, persino una meta turistica in cui il visitatore poteva fare il giro del tavolo, facendo attenzione a non fare mosse false».
IL SOLE CHE SPLENDE Però in tutti questi anni, dal 1953 a oggi, non c’è stato un momento in cui le due Coree sono state più vicine a quella pace mai firmata? «Probabilmente all’inizio degli anni 90 con l’avvento del presidente sudcoreano Kim Dae Jung e della politica “del sole che splende” – spiega Maronta – Fu allora che a Seul si costituì un ministero per la riunificazione. Era anche il momento più debole della Corea del Nord, con la Russia, il suo storico alleato, indebolito dagli anni della caduta del Muro e della fine dell’Unione Sovietica. Fu l’epoca della cosiddetta “finestra di opportunità” per un intervento americano proprio quando la Corea del Nord era solo all’inizio del suo programma nucleare e missilistico. Clinton tentennò, e la storia non si fa con i se. Dopodiché le cose sono cambiate, il rapporto con la Cina si è consolidato. Il resto è ciò che succede spesso nei momenti di transizione di un regime: ogni volta che c’è una crisi di sistema, crescono retorica e minacce».
LE FAMIGLIE DIVISE Ma, al di là della politica, della diplomazia, degli eserciti, come i due mondi del Sud e del Nord si sono parlati in questi decenni senza guerra ma anche senza pace? «Per esempio, attraverso gli incontri che ricompongo per qualche giorno le famiglie separate. Incontri però controllati, spiati, condizionati dal fatto che non si è mai soli nel momento in cui si parla». Quindi ci sono i percorsi complicati e drammatici degli esuli. «Che arrivano con grande difficoltà, provatissimi dall’esperienza, bloccati dal timore di ritorsione contro i familiari rimasti dall’altra parte. Non dobbiamo dimenticare il sistema castale in vigore al Nord, la discriminazione di cui sono oggetto le famiglie che hanno avuto un esule. Esuli che spesso non sono accolti con entusiasmo al Sud e che si ambientano con grande fatica, portando addosso le ferite della fuga, facendo i conti anche con un disagio psicologico particolare: nonostante tutto quello che hanno subito, non riescono ad accettare il modo con cui il loro Paese viene trattato mediaticamente». E i sudcoreani come vedono chi arriva dal Nord? «Senza particolare entusiasmo, forse anche spaventati dall’idea dei costi di una svolta modello Germania. Insomma, tutta questa voglia di riunificazione non c’è».