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 2018  gennaio 10 Mercoledì calendario

Insider Renzing

Abbiamo spesso criticato Renzi per le sue politiche, ma abbiamo sempre pensato che fosse onesto. Cioè che facesse politica non per fare soldi o per farli fare ad amici e compari, ma perché ama il potere e la ribalta e vuole usarli per realizzare i suoi progetti (che in gran parte non ci piacciono, però fa niente). Ma, diceva Montanelli, “per quanti sforzi facciamo, di un politico non riusciamo mai a pensare abbastanza male”. Infatti ora scopriamo dagli atti di un’indagine (si fa per dire) della Procura di Roma, acquisiti dalla Commissione banche, che ci sbagliavamo. Il quadro che emerge è quello di una ributtante simonia fra interessi pubblici e privati, in barba al dovere d’imparzialità della Pubblica amministrazione e a suon di informazioni privilegiate a finanzieri-editori amici che le sfruttano per fare soldi col minimo sforzo. Come disse il compianto Guido Rossi, che però parlava di D’Alema, Palazzo Chigi è tornato a essere “una merchant bank dove non si parla inglese”. O forse lo si parlava, ma non sapremo mai con chi, perché l’indagine non è stata fatta a dovere e la lista completa degli affaristi che beneficiarono di soffiate sottobanco per riempirsi le tasche resterà avvolta nella nebbia.
È il più grosso scandalo politico-finanziario degli ultimi anni, ancor più grave del caso Boschi-Etruria e persino delle scalate dei “furbetti del quartierino”. Un’affaire che in qualunque altra democrazia stroncherebbe la carriera al protagonista. Cioè a Renzi, che qui faceva da spalla a Carlo De Benedetti, all’epoca titolare del gruppo Repubblica-Espresso, e ora anche di Stampa e Secolo XIX in società con gli Elkann-Agnelli. Tutto comincia a metà gennaio 2015: la Consob, organo di vigilanza sulla Borsa, nota un’improvvisa fibrillazione attorno ai titoli di alcune banche popolari. La più appetita è Etruria, che a furia di acquisti sale di valore fino al 65%. Cosa induce tanti investitori a comprare azioni di quella e di altre banchette pericolanti? Sanno qualcosa che i comuni mortali ignorano? La Consob attiva la Guardia di Finanza, che acquisisce dai broker gli ordini di acquisto sospetti (tutti registrati per legge). Uno è di De Benedetti che il 16 gennaio, un mese dopo aver definito in tv Renzi “un fuoriclasse”, telefona al suo broker di fiducia, Gianluca Bolengo. E l’invita a investire nei titoli di alcune banche popolari, visto che Renzi gli ha appena annunciato che sta per riformarle per decreto. De Benedetti: “Il governo farà un provvedimento sulle popolari per tagliare la storia del voto capitario nei prossimi mesi… una o due settimane”. B.: “Questo è molto buono (…)”.
D.B.: “Quindi volevo capire una cosa … salgono le popolari?”. B.: “Sì su questo, se passa un decreto fatto bene, salgono”. D.B.: “Passa, ho parlato con Renzi ieri, passa”. B.: “Se passa è buono, sarebbe da avere un basket sulle popolari (…)”. Poche ore dopo il broker di De Benedetti inizia a comprare titoli di sei banche popolari poi coinvolte dal decreto. Di cui ancora nessuno sa niente (a parte l’Ingegnere e chissà chi altri): solo vaghe indiscrezioni sui giornali, ma nessun accenno alle date né tantomeno alla scelta del decreto a effetto immediato. Poi puntualmente, il 20 gennaio, il governo Renzi approva il Decreto Popolari, e i titoli delle banche interessate – ora che la notizia è pubblica – salgono ancora. Così, in quattro giorni, l’editore di Repubblica ed Espresso realizza con la sua finanziaria Romed una plusvalenza di 600 mila euro: soldi che non avrebbe incassato se non avesse saputo (da Renzi, dice lui) ciò che non avrebbe dovuto sapere. Cioè se fosse stato un cittadino come gli altri. L’11 febbraio il presidente Consob Giuseppe Vegas rivela alla Camera che una serie di “soggetti hanno effettuato acquisti prima del 16 gennaio, eventualmente accompagnati da vendite nella settimana successiva”, creando “plusvalenze effettive o potenziali stimabili in 10 milioni di euro”.
La Consob ipotizza un insider trading di “secondo livello” (depenalizzato nel 2004 da B. a illecito amministrativo), ma anche ipotesi di reato, infatti trasmette le carte alla Procura di Roma. Alla fine la Consob archivierà la sua istruttoria, con voto a maggioranza dei commissari e astensione di Vegas. Che fa la Procura di Roma, con quelle intercettazioni in mano? Poco o nulla: non iscrive né intercetta Renzi, De Benedetti e altri possibili soffiatori o profittatori di notizie riservate (cosa che invece fecero i pm di Milano e la gup Forleo nel 2005, alle prime avvisaglie dei reati finanziari dei “furbetti”, gettando una rete così vasta che alla fine acchiappò persino il governatore Fazio). Si limita a sentire in gran segreto il premier e l’Ingegnere come testi. L’unico indagato (per ostacolo alla vigilanza) è Bolengo, di cui 18 mesi fa il pm chiede l’archiviazione (per ora non accolta dal gip). La tesi è che non si possono sospettare Renzi e De Benedetti di insider trading perché l’Ingegnere non è preciso sulle due “informazioni privilegiate” che potrebbero integrare il reato: con Bolengo non parla esplicitamente di decreto (lo fa invece il broker, ma “in modo del tutto generico e non tecnico”), né mostra di conoscerne la data. Il 14 dicembre, in Commissione banche, Vegas parla non solo della Boschi, ma anche degli incontri fra Renzi e De Benedetti prima del Decreto Popolari. E subito la Procura si precipita a precisare che “non ha istruito alcun procedimento a carico di Renzi e De Benedetti”. Come se questo fosse un vanto. L’altra sera, a Otto e mezzo, Renzi sproloquia sul processo alla Raggi e, quando Lilli Gruber gli fa notare il caso molto simile del processo a Sala, svicola sulla Appendino. Poi aggiunge: “Mai ricevuto un avviso di garanzia in vita mia”. Un giorno o l’altro, forse, scopriremo il perché.