La Stampa, 10 gennaio 2018
Prezzi alle stelle e disoccupati. La Tunisia torna in piazza
La Tunisia aumenta il prezzo di pane, benzina, auto e hotel, l’Algeria proibisce l’importazione degli iPhone e delle auto di lusso, il Sudan toglie i sussidi ai prodotti alimentari e fa esplodere l’inflazione, l’Iran in piazza, anche, per il carovita e contro la più dura manovra di aggiustamento in un decennio, in Arabia Saudita principi, ma pure semplici cittadini, protestano per l’Iva e la fine di elettricità e acqua gratuite. L’austerity del Medio Oriente ha scatenato ondate di proteste come non si erano viste dal gennaio del 2011, quando la crisi economica aprì le porte alle Primavere arabe.
Il mondo è molto cambiato da allora e i regimi mediorientali, più o meno autoritari, sono meglio attrezzati a contenere la rabbia popolare. Ma si trovano davanti a scelte difficili. Il governo tunisino, come sette anni fa, si trova assediato dalle manifestazioni. Dopo gli scontri a Tebourba, con un morto e cinque feriti, le proteste si sono estese nelle province di Manouba, Kasserine e Gafsa e alla centralissima avenue Habib Bourguiba di Tunisi, dove andò in scena la cacciata del raiss Ben Ali. L’opposizione guidata dal leader del Front Populaire, Hamma Hammami, ha chiamato la gente alla «mobilitazione permanente» fino a quando il governo del premier Youssef Chahed non ritirerà la manovra, suggerita dal Fondo monetario internazionale.
Il primo ministro ha ribadito che il 2018 sarà «l’ultimo anno difficile» anche se la situazione economica «resta delicata». La polizia ha arrestato 44 persone, e lo stesso Chahed ha promesso il pugno di ferro contro i violenti. Ma in piazza è risuonato di nuovo il grido «Non abbiamo paura» della Rivoluzione dei gelsomini, l’unica, a dire il vero, che ha avuto un lieto fine democratico. I tagli e gli aumenti delle tasse su auto, chiamate dal cellulare, Internet, hotel sono indispensabili per ottenere un prestito da 2,8 miliardi di dollari dall’Fmi. Senza, Tunisi non sa come far quadrare i conti, mentre le tensioni regionali non aiutano: il Paese è in rotta con gli Emirati arabi uniti per essersi schierato dalla parte del Qatar nella querelle del Golfo e soldi dai fratelli arabi ne arrivano sempre meno.
È una congiuntura nefasta: alla stretta sul credito in Occidente, cominciata negli Usa, si unisce l’asciugarsi delle risorse del Golfo per il calo del prezzo del greggio. La restaurazione guidata da Arabia Saudita ed Emirati – a cominciare dalla presa del potere da parte del generale Abdel Fatah al-Sisi in Egitto nel luglio 2013 – è stata accompagnata da un fiume di petrodollari per mantenere in sella i governi amici. Ora però sono le stesse monarchie a dover mettere i conti in ordine. L’Egitto resta al riparo, perché troppo importante, ma un Paese come il Sudan, guidato dall’immarcescibile Omar al-Bashir, si è ritrovato a secco. Khartoum ha dovuto eliminare i sussidi che tenevano basso il prezzo del pane, l’inflazione è schizzata al 25 per cento, la protesta è dilagata, guidata anche dagli studenti stufi del regime, ed è stata repressa con violenza, con un morto e decine di feriti fra domenica e ieri.
Anche il Libano, un altro Paese strangolato dalla guerra regionale fra sauditi e Iran, è in crescita asfittica e ha appena bloccato l’aumento dell’Iva dal 10 al 15 per cento, per timori di rivolte. L’Algeria ha proibito l’importazione di telefonini, mobili, verdura fresca, in una lista ridicolizzata dagli oppositori in Rete per le sue bizzarrie, mentre Arabia Saudita e Iran si sono trovati d’accordo almeno su una cosa: per dimezzare deficit di bilancio a due cifre, via i sussidi ai beni di prima necessità e aumenti delle tasse. Ma i “riformatori” Rohani e Mohammed bin Salman ora fanno i conti con il crollo del consenso.