il Giornale, 9 gennaio 2018
I 40 di Rino Gattuso detto Ringhio
«Tu sei un pazzo da rinchiudere». Monica, la moglie di Rino Gattuso detto Ringhio a Milanello e in giro per il mondo, glielo ripete puntualmente dal giorno in cui s’incrociarono i loro occhi e i loro destini in un ristorante di Glasgow. Glielo ha ripetuto, a giusta ragione, qualche tempo fa quando fu trascinata ad Astana, capitale del Kazakistan, residenza scelta dal marito per allenare quella nazionale. C’erano 20-30 gradi sotto zero e Monica gli disse apertamente: «Rino tu sei un pazzo da rinchiudere». Gattuso è sempre stato così: questa è la sua forza e anche la sua debolezza. Capace di gesti generosi (pagò a sue spese gli stipendi all’Ofi Creta) o di memorabili assalti (contro Joe Jordan preso per la gola) ma sempre cavalcando il cavallo imbizzarrito che è poi il suo temperamento. «Spesso lo dico a mia madre: ma non potevi farmi meno focoso?» confessa sorridendo perché alle soglie dei 40 anni è uno di quei figli che venerano papà e mamma e restano attaccati allo scoglio della famiglia come datteri di mare.
Solo una lucida follia, d’altro canto, poteva sospingerlo dalle rive di Schiavonea, Calabria, al prato di San Siro, al mondiale di Berlino e ai tanti trionfi euro-mondiali vissuti col Milan di Ancelotti. Non era stato dotato da madre natura di un talento puro ma è stato capace di coltivarlo con il sacrificio, la passione e il sacro fuoco che solo uno come Ringhio poteva avere per uscire dall’anonimato e diventare Gattuso. Approdò a Perugia, passò da Glasgow prima che Ariedo Braida convincesse Zaccheroni che quel ragazzo col ciuffo nero in testa avrebbe fatto molta strada. E un giorno, affrontando Cristiano Ronaldo a San Siro, gli avrebbe portato via il pallone dai piedi e visto che CR7 a terra lamentava chissà quale violenza gli si avvicinò e in calabrese stretto gli suggerì: «Alzati che stai perdendo».
«Ho vinto tanto ma ricordo più le sconfitte» è capace di ammettere e non si tratta di una concessione alla narrazione romantica, semmai è lo specchio di un carattere capace quasi di ammalarsi per la sconfitta di Istanbul che lo spinse a pensare di distaccarsi dal Milan prim’ancora che arrivasse la notte della rivincita ad Atene. «Per sei-sette mesi mi svegliavo la notte pensando a quella partita persa» ripetè in molte interviste. E quando si presentò nell’ufficio di Galliani per chiedere di lasciare Milanello e partire per Monaco di Baviera, richiamato da Luca Toni, Adriano Galliani lo chiuse nella sala delle coppe e con l’aiuto di papà Franco gli tolse dalla testa quella dannata tentazione. La stessa scena avvenne nel 2012. Allora il vice di Berlusconi usò un altro strumento, la registrazione di una canzone («se mi lasci, non vale») ripetuta in telefonate notturne, tutti i giorni, senza successo però.
Adesso si potrebbero riconoscere le stesse tracce di quel viaggio ad Astana o del trasferimento da ragazzo in Scozia se in capo al suo quinto anno da allenatore non si fosse ritrovato, all’improvviso, sulla panchina del Milan cinese, dopo aver guidato la primavera. «Da calciatore mi divertivo di più, da allenatore avverto più pressione e maggiori responsabilità» la confessione che non ha bisogno di spiegazione. Basta vederlo sotto la pioggia, con la giacca della divisa, agitarsi come tarantolato, per avere la conferma e per condividere il suo punto di riferimento («mi rivedo in Conte»). Che non deve sembrare un moto di superbia perché è accompagnato da un codicillo esplicativo («voglio restare alla guida del Milan ma per i risultati ottenuti, non come un peso») che è la fotografia dell’uomo pieno di sano orgoglio ma anche dotato della necessaria umiltà. In effetti di Conte ricorda la cura dei particolari, tipo i compiti assegnati ai suoi calciatori durante la settimana di vacanza. «Ho dato a ciascuno di loro un gps per registrare gli allenamenti e non penso che lo diano ai parenti» la frase, più che una sicurezza, sembra quasi una minaccia. Avrebbe voluto portarli tutti a Dubai, al caldo e laggiù, sottoporli alle torture ma alla fine s’è dovuto arrendere alle prenotazioni già fatte.
Del nuovo Milan ereditato da Montella è disposto a fidarsi. «Se avessi ordinato loro di calzare gli scarponi e scalare la montagna lo avrebbero fatto» è la sua convinzione maturata in 50 giorni di lavoro durante i quali i risultati non sono stati esaltanti (3 successi, 3 sconfitte e 2 pari) ma le perfomances hanno segnalato una inversione di tendenza. E da qui ripartirà questo quarantenne da rinchiudere che ha deciso di diventare allenatore con la maiuscola insieme al suo Milan.