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 2018  gennaio 08 Lunedì calendario

«Grillini minaccia per l’economia. Il Pd si rassegni: non è più di sinistra». Intervista a Luca Ricolfi

Il sociologo Luca Ricolfi, torinese, classe 1950, docente di Analisi dei dati all’Università di Torino e responsabile scientifico della Fondazione David Hume (www.fondazionehume.it) è da anni uno dei commentatori più precisi, “empirista” direbbe lui, delle vicende italiane e dunque la persona adatta per un’intervista sull’anno elettorale che ci aspetta. 

Professore, andiamo verso le elezioni più incerte della storia repubblicana? 
«I risultati elettorali sono sempre incerti, ma stavolta anche se sapessimo con precisione i numeri del futuro Parlamento nessuno potrebbe dedurne che governo ne verrebbe fuori. Sono ben cinque le coalizioni verosimili: Forza Italia-Lega-Fratelli d’Italia, Forza Italia-Pd, Pd-Liberi e uguali-M5s, Liberi e uguali-M5s, M5s-Lega». 
L’ultima volta le previsioni non ci hanno preso, chi dice che a marzo finisca in un nulla di fatto come tutti prevedono? 
«Stavolta i sondaggisti sbaglieranno di meno, per ragioni che ha spiegato in modo eccellente Paolo Natale in un articolo sul sito della Fondazione Hume. Si potrebbe parafrasare ed estremizzare un po’ la sua analisi così: più diventiamo un Paese di disinibiti che non si vergognano di niente, più rendiamo facile il lavoro dei sondaggisti». 
Secondo lei come andrà? 
«Penso che il centro-destra prenderà leggermente meno voti di quelli che gli assegnano i sondaggi e il Pd di Renzi qualche voto in più». 
Oltre all’incertezza pesano una certa apatia generale e sondaggi negativi sul voto dei giovani... 
«Sì, ma il trend di distacco dalla politica non è nuovo. La novità è che il partito di Grillo ha perso di appeal, nessuno pensa seriamente che votare Raggi o Appendino sia uno sberleffo al sistema». 
Secondo lei l’Italia è una democrazia compiuta? 
«No, ma non è l’unica. Quasi nessun Paese occidentale lo è ormai più, la differenza è che alcuni in passato si sono avvicinati ad esserlo, mentre noi ne siamo sempre rimasti lontani, perché la spettacolarizzazione della politica senza dei veri partiti crea un corto circuito». 
Mattarella ha invitato i politici ad un uso responsabile dei numeri in campagna elettorale. Lei cosa pensa delle proposte in via di formazione? 
«Penso quel che immagino ne pensi Mattarella, con la differenza che io lo posso dire: i numeri dei partiti o non ci sono (vedi il silenzio sul debito pubblico) o non stanno in piedi». 
In un recente editoriale sul Messaggero ha criticato l’impostazione di fondo del M5s: dirigismo e tassazione. È il pericolo maggiore? 
«Secondo me sì, il programma e il personale politico dei Cinque Stelle sono il maggiore pericolo per la stabilità economica del Paese. Tuttavia anche Lega e Liberi e uguali non scherzano». 
Da dove viene secondo lei questa ondata anti-sistema, anti-scienza, anti-industria alimentare e non solo che pervade pure i grillini? 
«Non è nuova. I sociologi da almeno mezzo secolo descrivono l’Italia come un Paese in cui la cultura anti-industriale ha radici profonde». 
In questa situazione la sinistra è tornata a dividersi ed è in crisi d’identità e di leadership, come lei ha rilevato da tempo nel suo libro Sinistra e popolo (Longanesi). Come vede quel campo ora? 
«Lo vedo mal messo e ostaggio di un incantesimo da cui non intende liberarsi. Il Pd è diventato un “partito radicale di massa”, come dice Marcello Veneziani, ovvero si occupa di temi sovrastrutturali: unioni di fatto, fine vita, discriminazioni, fecondazione eterologa, tutela delle minoranze, diritti umani... Niente di male: a Renzi è riuscito in 4 anni quello che a Pannella e Bonino non è riuscito in 40. Il punto però è che, pur essendo diventato il partito dei “ceti medi riflessivi”, che si credono la parte migliore del Paese, anziché prendere coscienza di questa mutazione, si ostina a proclamarsi di sinistra e difensore dei ceti popolari. Qualcuno si può stupire che questi ultimi dicano “no grazie” e si rivolgano altrove?». 
Renzi merita la sua decadenza? 
«Sì e no. Umanamente la merita tutta, perché quando si ha poca cultura è buona regola non alzare i toni e stare a sentire gli esperti. Politicamente sarei più indulgente: Renzi è uno dei pochi politici che non vedono la modernizzazione del Paese come una disgrazia. Ma così torniamo al punto di partenza di questa chiacchierata, la profondità dei sentimenti anti-industriali e anti-moderni degli italiani: a noi la modernizzazione piace solo come elargitrice di doni insperati, dai telefonini al turismo, all’intrattenimento, mentre la detestiamo quando pretende di cambiare i nostri costumi, le nostre abitudini e i nostri privilegi». 
Come giudica l’avventura di Liberi e uguali
«Un’nteressante espressione di conservatorismo politico, in un Paese in cui tutti vogliono presentarsi come innovatori». 
Il campo liberale è ancora dominato da Berlusconi. Che ne pensa
«Non ho mai capito perché, in un quarto di secolo, in quel campo non si sia mai affermata una personalità comparabile a quella di Berlusconi, capace di sfidarlo o di raccogliere il testimone. È forse il segno che in Italia di cultura liberale ce n’è assai poca, anche a destra». 
Quali sono le tre riforme urgenti che suggerirebbe al prossimo governo? 
«Potrei dire: fisco, giustizia civile, pubblica amministrazione. Ma preferisco dire: riformate quel che vi pare, ma che siano vere riforme, ben studiate e davvero modernizzatrici, non i modesti e pasticciati ritocchi cui ci avete abituati, sia a sinistra sia a destra». 
Su immigrazione e cittadinanza quali le paiono i provvedimenti urgenti da prendere? 
«La questione della cittadinanza non è una battaglia di civiltà, ma una normale questione di tempi, condizioni e verifiche. Non sono sfavorevole a renderla più rapida, ma penso che le condizioni per concederla dovrebbero essere più stringenti di quelle attuali. Il vero problema non sono i residenti regolari che vogliono la cittadinanza, ma gli irregolari che alimentano la criminalità come spiegato nei dossier sul sito della Fondazione Hume». 
Davvero si possono abbassare in qualche modo le tasse o col debito presente sarebbe una follia? 
«Inutile nasconderselo: se si vogliono abbassare le tasse l’unica strada seria è una spending review permanente, “di legislatura”, fra cinque e dieci miliardi l’anno per cinque anni. La mia opinione, basata sulle analisi statistiche che ho condotto ne L’enigma della crescita (Longanesi), è che il nodo vero sia quali tasse abbassare: con poche risorse meglio concentrare l’intervento su Ires e Irap. Se si vogliono aiutare le famiglie è molto più efficace accelerare la crescita del Pil e dell’occupazione che concedere sgravi fiscali e contributivi a pioggia». 
Da torinese come valuta l’operato della sindaca Appendino? 
«Senza infamia e senza lode. Purtroppo Torino è una città in declino, oppressa da un debito mostruoso, di cui nessuno vuole parlare». 
Rifacendosi a Hume lei si definisce un liberale? E di sinistra? 
«Non mi considero un liberale, ma piuttosto un empirista, del resto è precisamente l’empirismo il contributo più importante di Hume alla storia delle idee. Quanto alla sinistra, che dire? La sinistra non è ancora di sinistra: aspetto che impari ad apprezzare il merito e la libertà». 
Chi sono i commentatori che ama leggere? 
«Purtroppo Natalia Ginzburg, Pier Paolo Pasolini e Indro Montanelli non ci sono più». 
Al sito della Fondazione collabora anche sua moglie, la scrittrice Paola Mastrocola, come vi dividete il lavoro? 
«Lei si occupa della sezione Humanities, che raccoglie contributi letterari ed artistici, io mi occupo della ricerca empirica. Collaboriamo da trent’anni in modo naturale, per affinità di vedute, specie per la comune insofferenza al conformismo. Ora stiamo varando uno studio sugli effetti che l’abbassamento della qualità degli studi può aver esercitato sulla mobilità sociale. L’ipotesi è che 50 anni di scuola e università facile abbiano danneggiato i poveri e favorito i ricchi». 
Da La Stampa al Sole 24 Ore, adesso al Messaggero, ha scritto per tanti giornali, come mai tutti questi passaggi? 
«Per ragioni ogni volta diverse, ma mai per dissensi sulla linea. Semplicemente, ho ceduto al corteggiamento di alcuni direttori». 
Quando pensa al suo lavoro di analista si sente ancora speranzoso? 
«Succede tutte le volte che riesco a produrre informazioni o analisi che prima non esistevano: fra quelle recenti sul sito della Fondazione, il nostro indice VS, che misura la vulnerabilità strutturale dei conti pubblici di un Paese».