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 2018  gennaio 09 Martedì calendario

La lezione del freddo

Un interminabile inverno trascorso nel New Hampshire, in condizioni di vita rese estreme dalle temperature bassissime. Allo scopo di sperimentare come il corpo e la mente reagiscono in un’ambiente ostile, mentre il gelo costringe ad apprendere l’arte della lentezza e della generosità. A raccontare in un magnifico saggio questa insolita esperienza è il filosofo Roberto Casati, autore di La lezione del freddo (Einaudi, 184 pagine, 18 euro), analizzando in dettaglio, in forma di diario, i cambiamenti imposti in ambito percettivo dalla neve che tutto ricopre, obbligando a ridefinire le modalità abitualmente adoperate per decifrare il reale. Mentre narra il suo quotidiano condiviso con la famiglia e un cane, Casati sottolinea che la sopravvivenza dipende dalla concentrazione assoluta. Il paesaggio al quale deve abituarsi impone vincoli. «È la natura precisa a dirti che cosa devi o non devi fare, se non obbedisci le conseguenze possono rivelarsi drammatiche per te e per gli altri». Si tratta, appunto, della lezione morale del freddo: «Sulla neve è vietato lasciare tracce che portino fuori strada gli altri che verranno dopo di te. Vale nei boschi del New England, ma vale anche nell’esistenza quotidiana in qualunque parte del pianeta».
VIGILANZA
Alla radice dell’indagine del filosofo ci sono le ricadute negative dell’indebolirsi contemporaneo delle capacità umane di rapportarsi con la natura, di difendersi da essa se necessario. Le tecnologie hanno diffuso la pericolosa utopia dell’invincibilità. È invece necessario mantenersi vigili, affinare senza sosta le doti di cui disponiamo da millenni per proteggerci da possibili pericoli. Senza mai sminuire il valore del senso di comunità: chi si isola viene sempre battuto dall’indifferenza degli elementi. Una regola che si applica se ci si confronta con la neve, la sabbia delle tempeste nei deserti o con l’acqua. Al termine della sua riflessione Casati si sofferma sui rischi del riscaldamento globale. Che lasciano indifferenti gli abitanti dei Paesi più ricchi. Persino felici che un aumento di pochi gradi delle temperature possano trasformare i fiordi della Norvegia in destinazioni quasi mediterranee e permettano di colonizzare turisticamente, persino, una parte delle terre artiche. 
ARTIFICIALE
Forse un giorno, aggiunge, il freddo scomparirà. Ma non riusciremo a farne a meno. Sarà prodotto in maniera artificiale, come accade in Dubai dove hanno costruito un enorme frigorifero per ospitare un campo da sci al coperto. Per ottenere il freddo si farà ricorso al petrolio, con inevitabili ricadute negative non solo sul piano economico. Voler cambiare i cicli della natura, ammonisce Casati, è una pessima scelta. Perché ostacola lo sviluppo dell’intelligenza umana. Che ci garantisce la salvezza anche in condizioni estreme come quelle da lui sperimentate nel crudo inverno americano. 
L’inverno e le temperature polari hanno spesso ispirato molti narratori contemporanei. È il caso, ad esempio, del canadese Adam Gopnik, di cui lo scorso anno Guanda ha proposto L’invenzione dell’inverno. La prestigiosa firma del New Yorker parte da una constatazione: nel corso del Settecento, il mondo moderno si è garantito il lusso di poter ammirare l’inverno da dietro un vetro, nel tepore di una stanza ben riscaldata, e da allora i mesi che separano l’autunno dalla primavera hanno smesso di essere soltanto un intervallo gelido, diventando molto altro e molto di più. Scrive, tra l’altro, Gopnik: «Scopriamo come una poesia abbia imposto l’immagine del piacere borghese di radunarsi intorno a un camino mentre fuori nevica; come un’illustrazione abbia sancito il sincretismo tra Natale dei consumi e Natale degli affetti; come la passione per le stampe giapponesi abbia ammorbidito la nostra visione del freddo; come i resoconti delle esplorazioni polari abbiano dato vita a un nuovo senso dell’avventura. L’inverno aspro con cui i romantici tedeschi identificavano lo spirito nordico in contrapposizione al razionalismo illuminista nel tempo ha ceduto il passo alle eleganti mollezze di quello ritratto dagli impressionisti; i mesi invernali hanno trovato le loro forme di svago, dal sottile erotismo delle piste di pattinaggio alle folle dello shopping, e l’estetica boreale delle festività di fine anno ha conquistato anche i climi mediterranei, in un profluvio di neve finta, abeti, renne e rami di vischio».
Si intitola Gelo il romanzo, uscito in Italia per Einaudi, che nel 1963 ha svelato all’intera Europa il talento di Thomas Bernhard. I lunghi monologhi di Strauch, il pittore pazzo isolatosi dal mondo in un paesino di montagna, sono l’invenzione di un nuovo stile, di una nuova labirintica sintassi delle ossessioni che avrebbe poi caratterizzato tutte le altre opere di Bernhard, nonché folte schiere di epigoni. Tra memorie autobiografiche, deliri persecutori, congetture filosofiche, invettive e allucinazioni, Strauch riesce a trasformare il suo totale orrore del mondo in una vitalissima, istrionica performance all’insegna dell’ironia e della complicità con il suo imbarazzato-affascinato interlocutore, che ben rappresenta la naturale reazione dei lettori. 
GLACIALE
Alla metafora della stagione invernale lo stesso Bernhard ha in seguito fatto ricorso per un testo autobiografico (Il freddo, Adelphi) nel quale racconta il terribile periodo trascorso in un sanatorio pubblico fra i diciotto e i diciannove anni. Le temperature glaciali costituiscono, ovviamente, una metafora della lotta durissima per la sopravvivenza ingaggiata da Bernhard, che deve «scongelare la sua anima» per aprirsi infine al mondo «dopo aver avuto la sfrontatezza di scrutarmi da cima a fondo esposto alla cruda rigidità di un inverno del cuore che mi paralizzava».