la Repubblica, 9 gennaio 2018
Le ragioni del cuore di Angelillo
Ti sia lieve la terra toscana, Antonio Valentin Angelillo, e scusa il ritardo. Scusa anche l’attacco, è quello che avrebbe scritto Brera e l’ho fatto apposta, so quanto ti stimasse. Paragonarti ad Alfredo Di Stefano, uno che in campo sapeva fare di tutto, non è poco. E forse era scritto nel destino tuo e degli altri due “angeli con la faccia sporca”, il ragionier Maschio e lo stregone Sivori, di accendere grandi accostamenti, di suscitare grandi sogni. Voi tre, con Corbatta e Cruz sui lati, vinceste la Coppa America del ’56 con un 3-0 in finale al Brasile di Didi. Tutti gli argentini si sentivano quasi campioni del mondo, ma nel ’58 in Svezia finirono ultimi del girone, suonati (6-1) anche dalla Cecoslovacchia. E il ct Guillermo Stabile, già noto come El Filtrador, per spiegare la batosta disse: «Il miglior centravanti del mondo è a Milano». Eri tu: l’Inter ti prelevò dal Boca. Sivori andò alla Juve, Maschio al Bologna. Per regolamento, chi giocava all’estero non poteva giocare in Nazionale, in più c’era anche la faccenda del servizio militare saltato.
A dirla tutta, appena arrivato non sembravi granché. Non un colosso, faccia aperta, naso vagamente da pugile, due baffetti sottili alla Clark Gable (oggi si direbbe alla Frassica), un’aria triste, tutto sommato. Triste come i tanghi che per anni avevi suonato col bandoneón sulla ginocchia.
Non avevi però una storia triste.
Emigrazione sì, da Rapone, in Lucania. Fame no: tuo padre aveva un negozio da macellaio, bastava per campare discretamente. Figlio unico, piuttosto mammone. Un argentino non può soffrire di saudade, dunque era nostalgia di mamma Soledad. L’Inter ti manda nella pensione degli scapoli con la raccomandazione di farti svagare.
Masiero e Fongaro ti fanno fare il giro dei night (castissimi, allora).
Al Rayito de Oro, se ricordo bene, c’è una bella ragazza bionda con un repertorio sudamericaneggiante, si chiama Ilya Lopez. Quando entri sta cantando “Grazie dei fior” ed è amore a prima vista, colpo di fulmine. Ilya Lopez è il nome d’arte di Attilia Tironi, bresciana, qualche anno più di te, ma che importanza ha? Tra un secolo avremo la stessa età, avrebbe commentato Oscar Wilde.
Non sembravi granché e nemmeno l’Inter di quegli anni lo era. Ma 16 gol non sono pochi, per un esordiente di vent’anni. In quell’Inter Benito Lorenzi fa gli ultimi giri di pista, il rendimento di Skoglund dipende dal numero dei bar visitati. L’anno dopo raddoppia i gol (33) ed è un record che tiene ancora, per i campionati a 18 squadre. La storia con Ilya-Attilia non è un flirt passeggero. Va avanti. Guardo foto dei due in vacanza, sulla poco peccaminosa spiaggia di Milano Marittima (altro che Ibiza e Maldive). Lei indossa un bikini a fiori, piuttosto castigato. Però per i giornali e la parte più bigotta (“non sono neanche sposati, pensa”) del tifo sei il bravo ragazzo irretito dalle arti di una bramosa Circe. Le vignette di Marino Guarguaglini sul Guerino ti dipingono in smoking e con le occhiaie. L’anno dopo all’Inter arriva Helenio Herrera, ti accusa di dolce vita, pretende e ottiene che tu sia ceduto alla Roma. In cambio arriva Luisito Suarez: un grande regista, che HH conosce bene e di cui si fida.
E adesso ti passo la parola. Non sto facendo ballare il tavolino, riporto quel che mi dicesti a Sassari nella primavera del ’91. Quella della Torres sarebbe stata la tua ultima panchina.
«Ti racconto che ad Arezzo, dove vivo con mia moglie Bianca, friulana di Paularo, un figlio di 17 anni e una figlia di 13 (aggiungere 27 per attualizzare: ndr) i primi tempi un dirigente mi marcava stretto. Mi disse che avevo fama di ubriacone, donnaiolo e gran fumatore. Preciso che bevo un bicchiere di vino a pasto, e neanche tutti i giorni, non ho mai fumato una sigaretta in vita mia e da molti anni credo di essere un buon marito e un buon padre.
Herrera ha raccontato frottole: io stavo con quella persona anche l’anno dei 33 gol, altro che Angelillo distrutto dal sesso. La verità è che per la Milano interista prima di me c’era solo il Duomo.
Herrera non sopportava che qualcuno gli facesse ombra.
Sempre così è stato, anche a Roma. Non lo odio, ma devo dire che mi ha condannato, ingiustamente, per la mia vita privata. Angelo Moratti non voleva cedermi, anzi sognava questo attacco: Jair, Angelillo, Mazzola, Suarez, Corso.
Mica male, no? Arrivo a Roma e trovo Carniglia che dice: se un attaccante fa 10 gol, 5 attaccanti insieme ne fanno 50. Prima linea con Orlando, Schuetz, Manfredini, io e Sormani. E siccome giocavo col 10, se non c’era filtro era colpa mia».
Quando tu arrivi a Roma io ho già cambiato squadra. Basta con l’Inter, per cui tifavo dal 1949: se non c’è posto per Angelillo non c’è posto neanche per me, non mi meritate più, adios muchachos.
Oplà, serenamente dall’Inter al Milan nello spazio di un mattino.
Non credete a chi dice che non si cambia mai squadra del cuore. Si può, e senza pentimenti. Posto che interessi, ho smesso di tifare Milan o altri nel novembre ’64, quando i vecchi della Gazzetta mi dissero che per il costo del giornale (50 lire) il lettore aveva diritto a commenti super partes. Giusto.
Quando sei a Roma ti arriva una telefonata di Gianni Agnelli: “Angelillo, da domani lei è dei nostri”. Errore, perché l’Inter a tua e sua insaputa nel contratto di cessione alla Roma aveva infilato una clausola: a tutti potevano rivenderti, tranne che a Juve e Milan. Per i tempi, queste cose erano regolari, ma da angelilliano non pentito mi chiedo quanto sarebbe cambiata la tua storia calcistica se avessi giocato con Sivori. Come oriundi, l’Italia vi ha offerto molto poco. A te, in azzurro due partite con un gol. E scudetti?
A te uno con la maglia del Milan, tre partite e un gol (al Torino) in tutto. Ma anche buoni ricordi.
Nessuno umanamente ti aveva mai trattato come Rocco: «Ero una riserva, ma mi faceva sentire sullo stesso piano di Rivera». Da allenatore, solo due esperienze in A, promozione col Pescara e salvezza con l’Avellino. Molta, troppa provincia, tra B e C. Con qualche soddisfazione: hai lanciato Altobelli e Beccalossi, hai segnalato all’Inter, da osservatore, Zanetti e Cordoba. «Soddisfazione è anche ricevere a Natale gli auguri di un tuo ex calciatore.
Soddisfazione è che Brera m’abbia detto: “Antonio, se ti serve una mano dammi un colpo di telefono”, ma io non l’ho mai chiamato, mi basta la stima. So che il calcio poteva darmi di più, ma non mi lamento. Se nel calcio innamorarsi è peccato, solo quello ho commesso. Rispetto ai giocatori di oggi sono un santo».
Non un santo, ho pensato, ma nessuno nel calcio ha scontato così duramente un amore, pur vivendo con dignitoso orgoglio il resto della vita, su campi dove Di Stefano non è mai andato. Addio, Antonio, campionissimo di quelli che amano il bel calcio e sanno le ragioni del cuore. Adesso toccherebbe al bandoneón.