la Repubblica, 9 gennaio 2018
Chi vince a Teheran
Bandiere nella polvere per Mahmud Ahmadinejad, forse agli arresti domiciliari. In ogni caso dopo le accuse di essere dietro alle manifestazioni di piazza che hanno dato inizio alla sommossa di fine anno l’ex- presidente della Repubblica Islamica è finito “fuori sistema”. Collocazione che, nella costituzione materiale iraniana, significa diventare automatico bersaglio della repressione.
Un destino scritto, quello di Ahmadinejad: nonostante, nel 2009, la Guida Khamenei abbia messo a rischio la stessa esistenza del Sistema, convalidando i brogli nelle urne che davano al presidente- ex pasdaran la vittoria su Moussavi. Un passo inaudito: sino ad allora tutte le componenti di quella oligarchia di fazioni che è la Repubblica Islamica avevano sempre rispettato il verdetto elettorale. Semmai la lotta per la selezione dei candidati, non meno cruenta, avveniva nelle stanze del Consiglio dei Guardiani, deputato a definire l’affidabilità politica di chi aspirava a cariche elettive. Ma con quella “mossa del cavallo” Khamenei si ricollocava al centro del Sistema: metteva fuori gioco i “gorbacioviani” della sinistra islamica, quei riformisti che sin dai tempi di Khatami, teorizzavano il primato della politica sulla religione e, così facendo, secondo la Guida, rischiavano di far implodere la Repubblica; indicando come presidente il delegittimato Ahmadinejad vanamente contatosi nelle urne senza l’entusiastico appoggio dei conservatori religiosi, lo riduceva a burattino di cui teneva i fili. L’alternativa, per Ahmadinejad, sarebbe stato l’immediato ritorno alla marginalità, sua e di quella destra radicale di cui era leader.
Quella destra radicale – antimperialista, antisionista, rivoluzionaria – già messa ai margini del Sistema dopo la fine della guerra con l’Iraq e la morte di Khomeini, passaggi critici neutralizzati dal patto per la ricostruzione siglato tra conservatori religiosi e pragmatici, ovvero dalla diarchia Khamenei-Rafsanjani. Un duplice tramonto che trascinava con sé anche la destra radicale, con il suo appello populista ai diseredati e ai reduci della generazione del fronte, celebrati ma non più centrali nell’Iran post- bellico e post-khomeinista che chiedeva stabilità, crescita, istituzionalizzazione della politica. Una destra rivoluzionaria che, nel 2005, la Guida ha resuscitato dopo oltre quindici anni di irrilevanza in nome del comune fronte contro gli odiati riformisti. Ma, a dimostrazione che le culture politiche non sono eludibili, Ahmadinejad ha dato vita a un’insidiosa collaborazione competitiva con i conservatori religiosi. Puntando a un khomeinismo senza clero, che mirava a ridimensionare il peso dei religiosi a favore degli eredi senza turbante dello spirito del 1979. Tanto da mettere in discussione persino la legittimità del clero a governare, con l’insistenza sull’imminente, messianico, ritorno del Mahdi: questione solo apparentemente teologica, dal momento che proprio la tesi che il clero dovesse governare in attesa della ricomparsa del Dodicesimo Imam occultatosi aveva indotto Khomeini a sconfessare un millennio di attendista tradizione religiosa sciita. L’insistenza sui diseredati sui “senza scarpe”, come veri beneficiari della Rivoluzione, completavano le posizioni indigeste ai conservatori religiosi.
Quando Khamenei ha piegato i riformisti, prima reprimendo brutalmente l’Onda verde e poi, riconquistando la centralità nel Sistema, consentendo che, nel 2013, esprimessero una candidatura di compromesso come quella di Rouhani, Ahmadinejad non serviva più. Tanto che il Consiglio dei Guardiani ha impedito anche la sua ricandidatura alle presidenziali del 2017. Messo all’angolo, Ahmadinejad ha giocato la carta della disperazione, quella della rivolta dei “diseredati”, orfani della sua generosa e inflazionistica politica di sussidi, sperando di muovere le acque del fossilizzato Sistema. Ma a mettere fine alla sua avventura politica ci hanno pensato proprio quei Pasdaran nei quali aveva combattuto, fedeli come sempre alla Guida, che hanno represso insieme la rivolta e le aspirazioni del populismo in salsa iraniana.