Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2018  gennaio 09 Martedì calendario

Il ’68 del Belice non è mai finito. «Qui la rinascita è all’anno zero»

VALLE DEL BELICE Tra i ruderi di Poggioreale, unici abitanti sette cani e un gatto nero, pare ancora di sentirlo l’alito della scossa che nella notte tra il 14 e il 15 gennaio 1968 si portò giù le mura di mezzo paese. Qui, in questo presepe-museo a cielo aperto, sembra che la vita si sia fermata ieri. Ma è due chilometri più giù, tra le palazzine dagli intonaci scrostati della new town, strade deserte, niente panni stesi né negozi aperti, sotto l’avveniristica sopraelevata che non congiunge nulla e nell’immensa e surreale piazza di marmo rosa e colonne doriche progettata dall’architetto Paolo Portoghesi, che ti rendi conto qual è l’eredità che ha lasciato il terremoto. L’essenza del Belice 50 anni dopo è tutta nelle parole di Calogero Petralia, il gestore del Panorama pub. «Il paese fantasma è questo. Lassù, tra quei ruderi che raccontano la nostra storia i visitatori ci vanno, qui dove ci hanno mandato a vivere non viene nessuno. Nel 1968 a Poggioreale eravamo 3400, oggi siamo rimasti 1400. I ragazzi hanno un solo sogno: fare 18 anni e andare via. E noi ci sentiamo forestieri in un paese dove nessuno ha pensato al futuro e hanno buttato soldi per costruire una sopraelevata dove non è mai passato neanche il carpentiere che l’ha costruita e in una piazza dove si riuniscono solo i piccioni».
Eccolo il Belice 50 anni dopo. La ricostruzione può ormai dirsi completata anche se in giro per i comuni devastati dal sisma che fece 410 morti, 1000 feriti e 100 mila sfollati, ci sono ancora un centinaio di famiglie che il contributo per la ricostruzione della casa non lo hanno ancora preso. Poco meno di 300 milioni di euro per l’edilizia privata e 150 per le opere pubbliche sono gli ultimi soldi che le amministrazioni del Belice attendono dallo Stato per far fronte al vero problema, perché– come dice Nicolò Catania, coordinatore del comitato dei sindaci del Belice – 50 anni dopo il terremoto continua e si chiama manutenzione. «Siamo costretti a centellinare le poche risorse che abbiamo per manutenere queste opere faraoniche che a nulla sono servite se non a sovradimensionare territori che oggi si ritrovano con opere di urbanizzazione ormai in rovina».
Prendete la rete fognaria di Partanna. Qui la pulitura delle caditoie non si faceva da chissà quanto. Quando nella rete fognaria ha ripreso a scorrere l’acqua si sono verificate miriadi di cedimenti ovunque. Un disastro. E un paradosso è l’asse del Belice, la strada che avrebbe dovuto collegare la valle da una parte all’autostrada che corre lungo il mare dall’altra alla superstrada Palermo- Sciacca. Peccato che, dopo una decina di chilometri, finisca in una trazzera in piena campagna. Ponti avveniristici, megapiscine mai utilizzate, centri polifunzionali che adesso si vorrebbero abbattere. La storia della ricostruzione “sbagliata” della valle del Belice è questa.
«Qui, nella prima grande calamità naturale del dopoguerra, si sono sperimentate strategie deleterie con scelte piovute dall’alto che hanno privilegiato un’idea di grandiosità inutile, e che, per ben 19 anni, hanno privato i cittadini dei contributi per la ricostruzione delle loro case. La prima legge organica per il Belice – ricorda il sindaco Catania – è arrivata solo nel 1987 e in pochi anni, spendendo un quarto del finanziamento complessivo, si sono ricostruite intere città».
Per questo oggi i sindaci del Belice raccomandano ai loro colleghi del centro Italia colpite dai sismi più recenti. «Appena sentite parlare di strutture regionali, di commissari, fate quadrato. I soldi vanno spesi dagli enti locali, gli unici che conoscono le esigenze del territorio». Fosse stato così da subito anche nel Belice, forse si sarebbe evitato di costruire interi paesi come Santa Margherita dove tutte le case sono antisismiche ma mancano le opere di urbanizzazione primarie, dalle fogne all’asfalto nelle strade. E si sarebbe evitato di puntare sulle new town diventate simbolo del fallimento riducendo i vecchi centri storici a un ammasso di rovine, discariche dell’amianto delle vecchie baracche, perché non ci sono i soldi né per ristrutturare né per abbattere. E neanche per le bonifiche. «Noi sindaci di Partanna, Salemi e Menfi siamo diventati i più grossi immobiliaristi del Sud Italia – spiega ancora Catania – ci troviamo a gestire centinaia di case fatiscenti e, in mancanza di fondi, l’unica cosa che possiamo fare è un transennamento continuo. Ma non abbiamo voglia di piangerci ancora addosso. Per questo il 14 gennaio, al presidente Mattarella, mostreremo le tante eccellenze del nostro territorio che la gente del Belice ha saputo tirare fuori».
In 50 anni sono arrivati 12 miliardi di euro, meno della metà di quelli destinati al Friuli. Un comunista d’antan come Vito Bellafiore, per 30 anni sindaco di Santa Ninfa, animatore di tutte le battaglie del Belice, oggi a 88 anni, riguardando quella foto d’epoca che lo ritrae nel fango a incitare i suoi concittadini a non lasciare i paesi, la vede così: «Il confronto tra il Friuli e il Belice evidenzia il razzistico strabismo dello Stato che ha condannato il nostro territorio a una condizione di abbandono e desertificazione umana.
La ricostruzione è finita ma la rinascita del Belice è all’anno zero».