Corriere della Sera, 9 gennaio 2018
Churchill nell’angolo
Per Londra fu il momento più difficile nel corso dell’intera Seconda guerra mondiale. A provocare la crisi del governo britannico presieduto dal conservatore Arthur Neville Chamberlain fu, ai primi di maggio del 1940, lo sfondamento hitleriano in Norvegia e la fuga dei soldati inglesi dal porto di Trondheim. La campagna norvegese era costata al Regno Unito 1.800 soldati, una portaerei, due incrociatori, sette cacciatorpediniere e un sottomarino. Per l’Inghilterra (e per l’Europa tutta) fu – come dicevamo – l’inizio del mese più brutto della sua storia, che si sarebbe concluso con la caduta della Francia in mano nazista e con la drammatica evacuazione di oltre 300 mila soldati britannici da Dunkerque. Adesso un libro di Anthony McCarten, edito da Mondadori, L’ora più buia (da cui è stato tratto liberamente il film omonimo diretto da Joe Wright e interpretato da Gary Oldman e Kristin Scott Thomas nei panni di Winston e Clementine Churchill) descrive, sulla base di una ricchissima documentazione, i momenti in cui il nostro continente rischiò di cadere per sempre sotto il dominio della svastica.
Winston Churchill fu il primo a entrare in scena offrendosi – in quanto primo lord dell’Ammiragliato – come capro espiatorio per l’esito della disastrosa campagna norvegese: «Mi assumo la piena responsabilità di tutto ciò che è stato fatto, e mi prendo la mia fetta di colpa», scandì di fronte alla Camera dei Comuni il 9 maggio, giorno dell’importante dibattito sull’esito infausto di quella fase della guerra (anche se il peggio doveva ancora venire). All’epoca Churchill non godeva di grande popolarità. A lui veniva addebitata la catastrofe di Gallipoli nella Prima guerra mondiale; di lui era rimasto ben impresso – quanto meno tra i commentatori dei giornali – l’andirivieni tra il Partito conservatore e quello liberale. Veniva irriso, scrive McCarten, considerato un egocentrico, un voltagabbana, un «mezzosangue americano»; un uomo che, per usare le parole del deputato conservatore sir Henry «Chips» Channon, era militante di «una sola causa: se stesso». Oggi, ricorda McCarten, allo statista con il sigaro sono intitolati 3.500 tra pub e hotel, oltre 1.500 negozi, 25 strade, «e il suo volto si trova un po’ ovunque, dai sottobicchieri da birra agli zerbini». All’epoca, invece, era tenuto nel conto di un personaggio vanesio, bizzarro, imprevedibile. Ma quella sua ammissione di colpa nel momento in cui il primo ministro entrava nella tempesta non passò inosservata.
La notò lo stesso Chamberlain, il premier settantunenne, l’uomo dell’ appeasement, colui che – nel settembre 1938 alla Conferenza di Monaco – aveva «regalato» ad Hitler la Cecoslovacchia nella speranza di ottenere in cambio la pace. Chamberlain, però, non fece in tempo a compiacersene perché proprio il 9 maggio fu travolto dal Parlamento. David Lloyd George, il liberale che era stato a capo del governo nel precedente conflitto mondiale, gli si rivolse in questi termini: «Voglia dare un esempio di sacrificio, dal momento che in questa guerra nulla può contribuire alla vittoria più di una sua rinuncia all’alta carica». Il laburista Clement Attlee puntò l’indice contro di lui e gli chiese con risolutezza di lasciare la guida del governo: «Non si tratta solo della Norvegia; la Norvegia è il culmine di molti altri sbagli… La gente dice che la responsabilità di condurre le cose è affidata per lo più a uomini che hanno collezionato una serie pressoché ininterrotta di fallimenti». Dopodiché i laburisti si dissero pronti a entrare in un gabinetto di unità nazionale, a patto però che a tenerne le redini fosse chiunque, ma non Chamberlain, definito «quell’uomo». Persino Leo Amery, parlamentare del suo partito, lo accusò: «Troppo a lungo siete stato seduto qui, per quel poco di bene che avete saputo fare… andatevene, vi dico, e che con voi sia finita per sempre». L’ammiraglio Roger Keyes (anch’egli conservatore) si presentò alla Camera dei Comuni vestito in alta uniforme e, a sorpresa, si scagliò contro l’«impressionante storia di inettitudine dell’esecutivo». Nel suo diario il deputato Channon così descrisse quel 9 maggio: «Tra i miei colleghi è tutto un tramare e intrigare, complottare e ancora complottare». L’aula del Parlamento precipitò nel caos. La moglie di Lloyd George, Margaret, annotò: «Non avevo mai visto uno spettacolo del genere. La Camera appariva decisa a togliere Chamberlain di mezzo… L’urlo che ha accompagnato la sua uscita di scena era impressionante con quelle grida “vattene, vattene!” … Non ho mai visto un primo ministro ritirarsi così ignominiosamente». Venne poi il momento del voto. Chamberlain prevalse, sia pure di misura. Ma capì che era tutto finito quando si accorse che ben 41 deputati conservatori, appartenenti al suo stesso partito, si erano pronunciati contro di lui. Del resto era preparato all’uscita di scena anche perché affetto da un cancro al colon che – ne era da tempo consapevole – gli avrebbe lasciato pochi mesi di vita.
Il prescelto per la successione era Edward Wood, lord Halifax, già viceré in India e ora ministro degli Esteri in sostituzione di Anthony Eden, fatto fuori nel 1938 in quanto nemico della pacificazione con Hitler. Grande fautore anche Halifax della politica di appeasement, nel 1937 – quando non era ancora ministro degli Esteri – aveva accolto un invito di Hermann Goering a una battuta di caccia in Germania e nell’occasione aveva avuto un abboccamento con Hitler (che la prima volta non riconobbe: lo scambiò per un maggiordomo e gli affidò la giacca). Subito dopo, però, ne fu ammaliato. Si complimentò davanti a tutti con il dittatore nazista riconoscendogli di aver «reso grandi servigi alla Germania» e disse che «se in Inghilterra l’opinione pubblica si era dimostrata critica… in parte dipendeva dal fatto che il popolo inglese non era del tutto consapevole» dei meriti di Hitler. Scrisse poi un appunto a Eden (contrario all’incontro) in cui rivelava di aver discusso con Hitler delle «modifiche dell’assetto europeo che avrebbero potuto verificarsi con il tempo». Confidò a Stanley Baldwin la propria ammirazione per i cardini dell’ideologia nazionalsocialista («nazionalismo e razzismo sono una forza straordinaria… suppongo che, al loro posto, la penseremmo allo stesso modo», gli disse parlando dei nazisti). Diede, con un anno di anticipo, una sorta di luce verde all’annessione dell’Austria: «Il popolo britannico», sentenziò, «non acconsentirebbe mai a entrare in guerra perché due Paesi tedeschi hanno deciso di fondersi». E quando fu nominato ministro degli Esteri restò delle stesse opinioni.
Il 12 ottobre del 1938, undici mesi prima dell’esplosione della guerra, l’ambasciatore americano a Londra, Joseph Kennedy, ebbe con lui un incontro e così relazionò a Washington: «Halifax non crede che Hitler voglia entrare in conflitto con la Gran Bretagna, né che per la Gran Bretagna abbia senso entrare in guerra con Hitler, a meno di un’interferenza diretta nei domini inglesi». Halifax, secondo Kennedy, suggeriva di salvaguardare gli interessi angloamericani e di «lasciare che Hitler continuasse a fare i propri comodi in Europa centrale», e che «facesse quel che voleva per se stesso».
Tutto ciò in Inghilterra alla fine degli anni Trenta appariva nient’affatto riprovevole, anzi «realistico». I colleghi di partito apprezzavano Halifax (anche quelli che criticavano Chamberlain, che del resto pensava le stesse cose del suo ministro), e così anche i laburisti. Halifax poteva inoltre vantare un rapporto di autentica amicizia con il re Giorgio VI. Così, quando Chamberlain decise di farsi da parte, il sovrano fece l’impossibile per sostituirlo con Halifax. Ma fu proprio questa insistenza di Chamberlain e di Giorgio VI a provocare in Halifax un’esitazione. Prevedeva lucidamente che la Norvegia fosse solo l’inizio della catastrofe, che le armate hitleriane avrebbero travolto l’intera Europa continentale e temeva che l’ira del Parlamento, già coagulatasi contro Chamberlain, si sarebbe ripresentata, ancora più forte, a danno del suo successore. Soprattutto se il nuovo premier si fosse presentato, come era nel suo caso, in una esplicita linea di continuità. Ritenne che fosse più prudente saltare un giro, attendere che l’onda negativa travolgesse qualcun altro, per poi riapparire sulla scena con un piano negoziale concordato insieme a Benito Mussolini (e tramite lui con Hitler). I suoi compatrioti, pensava, lo avrebbero salutato come colui che aveva riportato la pace. A un prezzo – il consenso alla dominazione nazista sull’Europa continentale e qualche concessione nelle colonie – che sarebbe apparso irrisorio.
Churchill appena nominato da Giorgio VI (malvolentieri) alla guida del governo, confermò agli Esteri Halifax, con il quale aveva rapporti ostili da una ventina di anni e che aveva soprannominato The Holy Fox (la volpe furba). Poi pronunciò il celeberrimo discorso in cui prometteva agli inglesi «sangue, fatica, lacrime e sudore». E mentre Hitler invadeva la Francia provocandone l’immediato collasso, sfidò costantemente Halifax (e con lui Chamberlain, probabilmente anche il sovrano) a uscire allo scoperto con il loro «piano di pace».
Il momento della verità giunse, dopo una lunga serie di sconfitte militari, con le riunioni del gabinetto di guerra il 26 e 27 maggio. Il 25 Halifax aveva incontrato l’ambasciatore italiano a Londra Giuseppe Bastianini – una personalità di grande rilievo politico – e aveva concordato con lui le mosse da fare (un passo a cui McCarten attribuisce grandissima importanza). Parigi stava cadendo nelle mani dei nazisti, oltre 300 mila soldati inglesi erano intrappolati sulla costa settentrionale della Francia e la Gran Bretagna appariva alla mercé degli umori di Hitler. Halifax passò all’attacco. Accusò Churchill di non essere sufficientemente lucido e ripropose di sondare Mussolini («preoccupato come crediamo per il potere di Hitler») in vista del famoso negoziato. Chamberlain annotò sul diario che Churchill dava l’impressione di essere scettico ma, a questo punto, se avesse potuto «trarsi d’impaccio» rinunciando a Malta, Gibilterra e qualche colonia africana, secondo lui, avrebbe «colto l’occasione al volo». E mentre il primo ministro varava l’operazione «Dynamo» per rimpatriare da Dunkerque quanti più militari inglesi possibile, Halifax lo mise con le spalle al muro: «Se scoprissimo di poter ottenere (da Hitler) condizioni che non presuppongono l’annientamento della nostra indipendenza, saremmo degli sciocchi a non accettarle».
Churchill appariva prostrato, confuso e pronto a cedere all’idea prospettata da Halifax. L’uomo, scrive McCarten, «si trovò messo nell’angolo e dovette riconoscere (la prima di una lunga serie di concessioni le quali, secondo lo storico, metterebbero in discussione l’immagine che abbiamo di lui, ndr ) che pur dubitando dell’utilità di un confronto con l’Italia… la questione meritava il vaglio del Gabinetto di guerra». In quel momento Churchill «prese in seria considerazione l’ipotesi di trattare la pace con Hitler», scrive McCarten, «per quanto tale idea possa oggi sembrarci disgustosa». So bene, prosegue l’autore, «che questa conclusione è impopolare e che mi pone in rotta di collisione con la quasi totalità degli storici e degli studiosi». Ma non si può non tenere conto di «un progressivo cedimento della sua precedente propensione a combattere a ogni costo, e un crescente interesse per l’ipotesi di negoziare la pace». In quel momento Churchill effettivamente diede disposizione che il ministro degli Esteri predisponesse un memorandum in cui venivano fissati i termini dell’iniziativa di pace. Si era arrivati a un passo dalla sua resa. Dopo di che sarebbe stato disarcionato e, quando la «mediazione Mussolini» fosse andata in porto, con ogni probabilità sarebbe stato sostituito con lo stesso Halifax.
A sorpresa, però, l’operazione Dynamo diede risultati insperati, oltre 330 mila soldati inglesi riuscirono a tornare nell’isola. Ma soprattutto Giorgio VI vinse le diffidenze della prim’ora, manifestò a Churchill il proprio impegno al suo fianco. Il primo ministro si riprese e giunse ad una resa dei conti con Halifax. Durissima. Churchill disse ad Halifax: «L’approccio che proponete è non solo futile, ma mortalmente pericoloso». E Halifax rispose così: «Qui il pericolo mortale è la romantica fantasticheria di combattere fino all’ultimo … Cosa vuol dire “l’ultimo” se non la completa devastazione?». Churchill di rimando: «Ma quando la apprenderete la lezione? Dio santo! Quanti dittatori dovremo ancora vezzeggiare, blandire, favorire con immensi privilegi per capire che non si può ragionare con una tigre quando si ha la testa nelle sue fauci!». Halifax: «Signor primo ministro, penso sia necessario mettere agli atti che se è questa la vostra unica prospettiva… allora, sappiatelo, le nostre strade si dividono». E la «divisione delle strade» – questo era il senso della sfida – avrebbe fatto cadere il governo. Ma quel guanto fu lanciato in ritardo. Churchill con il sostegno del re e del Parlamento, conquistato con il secondo celeberrimo discorso nel quale impegnava il Paese a combattere «fino a quando Dio lo vorrà», piegò addirittura Chamberlain e riuscì a isolare Halifax. Che avrebbe mantenuto agli Esteri qualche mese per poi farlo fuori mandandolo, come ambasciatore, negli Stati Uniti.