il Fatto Quotidiano, 9 gennaio 2018
L’Iran degli impoveriti. Una protesta di piazza non fa rivoluzione
Quando il 28 dicembre sono giunte le prime notizie di manifestazioni a Mashhad, in Iran, molti commentatori hanno immaginato lo scenario delle manifestazioni che avevano scosso il Paese nel 1999, in piena epoca Khatami, oppure nel 2009, nel momento in cui gli elettori contestarono la vittoria del populista Ahmadinejad giunto al secondo mandato presidenziale. Nei giorni successivi le proteste si sono estese ad altre città, spesso piccole e situate in zone meno progredite come il Lorestan, ma anche in centri importanti come Kermanshah. Il 3 gennaio Mohammad Ali Jafari, capo dei Pasdaran, ha dichiarato finite le manifestazioni di protesta. Col passare dei giorni è parso chiaro che la gran parte dei manifestanti protestava principalmente per ragioni economiche, appartenendo a ceti sociali particolarmente colpiti da crisi economica e forte inflazione. Piccola borghesia urbana e popolo, uomini e donne che chiedono lavoro, migliori stipendi, sicurezza negli investimenti: aspirano ad arrivare a fine mese senza dover tirare la cinghia.
Non necessariamente politicizzati, non sempre contrari alla Repubblica Islamica, spesso né conservatori né progressisti, in qualche caso spaventati dalle notizie fatte trapelare sul documento economico preparato dal governo, a volte mossi da rivendicazioni locali, oppure come a Teheran infuriati per il fallimento delle società cui avevano incautamente affidato i loro risparmi.
A guardar bene, si tratta di una prevedibile ricaduta delle politiche economiche del governo Rohani, che in questi anni ha tentato di ridurre il peso dello Stato nell’economia, anche per combattere corruzione e strapotere delle fondazioni religiose che controllano buona parte del sistema industriale e finanziario nel Paese, liberando il mercato da briglie troppo strette.
Unite allo sforzo per ridurre progressivamente l’inflazione, queste politiche lasciano poco spazio a misure di stimolo della stagnante economia iraniana, danneggiando la parte più debole della popolazione. In particolare, la crescente disoccupazione crea un diffuso malcontento tra i giovani.
Rohani e i suoi collaboratori hanno sperato inutilmente in una ricaduta positiva dell’accordo sul nucleare, il Jpcoa (Joint Comprehensive Plan of Action) firmato a Vienna il 14 luglio 2015, che avrebbe dovuto consentire all’Iran di reinserirsi gradualmente nel commercio globale. Al contrario, la prudenza forse eccessiva delle banche europee, alle prese con una crisi di dimensioni sistemiche e il cambio d’atteggiamento americano dopo l’elezione di Trump hanno rallentato i previsti investimenti stranieri, deludendo le attese dei molti iraniani che speravano in un veloce miglioramento della situazione. In questo senso, oltre che con riferimento a operazione spionistiche vere e proprie, si devono leggere le parole di Ali Khamenei che imputa l’avvenuto a una manina straniera.
E ancora, i tweet di Trump sono destinati a creare risentimento più che consenso in una nazione dotata di forte amor patrio. Certo, il repentino cambio di posizione americano, pur annunciato in campagna elettorale, l’alleanza con Arabia Saudita e l’asse tra quest’ultima e Israele rischiano di portare indietro l’orologio ai tempi dell’Asse del Male evocata da George W. Bush. Questo innalza il rischio di guerra in un teatro prossimo all’Europa, anche economicamente, tanto che Federica Mogherini si è più volte spesa a favore dell’accordo nucleare. Significativa anche la presa di posizione di Emmanuel Macron, presidente di una Francia impegnata a consolidare la sua presenza commerciale in Iran, che ha puntato il dito contro la strategia aggressiva di Trump.
Dentro la Repubblica Islamica si registrano atteggiamenti e posizioni differenti: da un lato Rohani e il brillante ministro degli Esteri, Javad Zarif, si sono detti a favore del diritto di manifestare ma contrari alla violenza, dall’altro alcuni conservatori attenti alle classi che formano la loro naturale constituency, hanno in un primo momento appoggiato la protesta, che ha avuto inizio nella città sede del mausoleo di Ali al-Reza, ottavo Imam sciita, che per un attimo era stato designato erede del califfo al-Ma’mun in un fugace tentativo di sanare lo scisma interno all’Islam.
Mashhad è la città dove ha sede la più grande e potente delle fondazioni religiose, legata al santuario, che controlla una fitta rete di società e imprese. A capo di questa fondazione siede, nominato direttamente dalla Guida, Ebrahim Raisi, principale rivale di Rohani alle Presidenziali e genero del predicatore del venerdì della città, il conservatore Ahmad Alamalkhoda. Insomma, non siamo certo di fronte a una rivoluzione, ma al malcontento popolare nei confronti di un governo che non ha potuto tener fede alle promesse e alle speranze di quanti lo hanno votato, un malcontento che in assenza di miglioramenti nell’economia rischia di divenire cronico. Rohani si avvia a un secondo mandato ben più complicato del primo, come già accaduto a Khatami e persino al conservatore Ahmadinejad. In un momento in cui gli Usa aumentano la pressione con nuove sanzioni e chiedendo al Consiglio di Sicurezza Onu di discutere le proteste iraniane, l’interesse dell’Europa è di sostenere criticamente il presidente riformista nel percorso di apertura al mondo, ricordando che non tutte le proteste conducono a rivoluzioni.