La Stampa, 9 gennaio 2018
Fordlandia l’utopia nella foresta
C’è una città assediata dalla foresta amazzonica che racconta la storia di un esperimento sociale di impronta razzista, targato Henry Ford. Il magnate statunitense delle automobili l’ha battezzata Fordlandia e dopo decenni di declino ora sta per ritornare al vecchio splendore, grazie all’impegno di privati che si sono rimboccati le maniche per ristrutturare quelle casette di un «sogno americano» finito male.
C’è persino un progetto del governo brasiliano, teso a rivitalizzare un piccolo centro urbano che può diventare un originale polo d’attrazione vintage per chi si vuole avventurare nel cuore dell’Amazzonia. Situato lungo le rive del fiume Tapajós, vicino alla città di Santarém, nello Stato brasiliano del Parà, può infatti fungere da base ideale per escursioni nell’immenso habitat tropicale.
La vicenda di Fordlandia affonda le sue radici nelle pieghe della crisi economica del ’900. Siamo a cavallo tra gli Anni 20 e 30, la grande depressione è alle porte, gli Stati Uniti rischiano il crac. Il magnate dell’industria automobilistica americana s’imbarcò in un’avventura, nel cuore del Brasile, destinata a naufragare dopo solo sei anni. Era il novembre 1928 quando due navi cargo a stelle e strisce approdarono sulle sponde del Tapajós, cariche di tutto il necessario per costruire una città modello yankee nel bel mezzo della giungla. L’intento era quello di fornire un bacino sicuro di una materia prima fondamentale, la gomma per pneumatici, per evitare di dipendere dai mercanti olandesi e britannici che Ford odiava.
Un affare poco redditizio
Il governo brasiliano concesse al colosso industriale Usa 10 mila chilometri quadrati di foresta, in cambio del 9% dei profitti generati dall’estrazione della gomma. Un affare non particolarmente redditizio per la Ford che dovette sborsare sull’unghia 125 mila dollari dell’epoca alle autorità statali per iniziare i lavori. Come se non bastasse, gli ingegneri americani spediti in loco non avevano alcuna idea di cosa volesse dire lavorare in un ambiente tropicale.
Fordlandia venne progettata con tutte le amenità tipiche di una cittadina americana di provincia: campo da golf, teatro, piscine, motel, sale da ballo e persino una biblioteca. Ford era un razzista a tutto tondo, antisemita e grande fan di Hitler, tanto da fornire segretamente materiale automobilistico alla Germania anche dopo lo scoppio della Seconda guerra mondiale. Fu tra i primi a diffondere negli Stati Uniti i Protocolli dei Savi anziani di Sion, il clamoroso falso confezionato dalla polizia zarista che descriveva un grandioso complotto ebraico di dominazione del mondo.
L’industriale americano era un idealista ed era fermamente intenzionato a creare in Brasile non solo un prezioso bacino di approvvigionamento di gomma, ma anche quella che chiamò «un’opera di civiltà», congegnata secondo rigidi criteri razziali e salutistici. Stabilì che l’abitato di Fordlandia fosse diviso in due: da una parte le comode villette destinate agli statunitensi bianchi (chiamata «Vila Americana»), dall’altro le miserevoli casupole per i locali. Un apartheid ante litteram. Ford impose ai lavoratori brasiliani una dieta spartana a base di riso, pesche e fiocchi d’avena. Anche per i suoi connazionali il puritano magnate aveva previsto uno schema di regole rigide: niente jazz, alcol, sigarette, donne di facili costumi. Persino il football venne messo al bando. La conseguenza fu che nella zona fiorì un ricco mercato nero: i brasiliani della zona utilizzavano perfino le angurie per contrabbandare in Fordlandia tabacco e liquori. Poco più in là, nel bel mezzo dell’Amazzonia, sorsero come funghi night club e bordelli, per soddisfare gli appetiti sessuali proibiti di operai e dirigenti.
Il magnate getta la spugna
Nel 1930 scoppiò la prima rivolta delle maestranze locali, stufe delle condizioni di lavoro ed esasperate dalla dieta imposta dai manager americani. Per placarli dovette intervenire l’esercito. La stampa brasiliana, dapprima favorevole all’esperimento di Ford che portava comunque soldi e lavoro in un’area poverissima abitata dagli indios, iniziò a denunciare le condizioni disumane in cui erano costretti gli operai. Fordlandia venne bollata come «Stato nello Stato», un’area fuori controllo interdetta alle autorità statali. Ciliegina sulla torta, i metodi aggressivi di sfruttamento utilizzati dagli ingegneri statunitensi provocarono una morìa di alberi della gomma. Vedendo i magri frutti del loro lavoro, molti tecnici Ford caddero in depressione, altri vennero colpiti da malaria. Solo nel 1934 però il testardo magnate gettò la spugna e decise di rinunciare al progetto: la città venne abbandonata, insieme con il mobilio e molti oggetti appartenuti ai malcapitati protagonisti di questo esperimento sociale.
208 milioni buttati via
Con la fine della guerra, nel 1945, grazie all’apertura del mercato giapponese, Ford riuscì a liberarsi dei monopolisti olandesi e inglesi. Dal Sud America non arrivò mai la gomma sperata e in tutto vennero buttati via 208 milioni di dollari in un tentativo iniziato male e finito peggio. L’industriale che ha inventato la catena di montaggio moderna e che voleva creare una città a sua immagine non ha mai voluto visitare Fordlandia, l’imbarazzante dimostrazione del fallimento della sua utopia moralista.
Oggi quella cittadina è ancora in gran parte disabitata e degradata. Attualmente ci vivono duemila abitanti, tra cui anche qualche americano di buona volontà che vuole rivivere l’atmosfera bizzarra della vecchia Fordlandia. I segnali di una sua rinascita però ci sono tutti. E forse ciò che non riuscì all’industriale yankee si realizzerà sotto l’insegna del turismo globale.