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 2018  gennaio 09 Martedì calendario

Recy Taylor, la donna che ispirò Rosa Parks diventa l’icona della lotta femminile. Violentata nel ’44 da sei bianchi, non ebbe mai giustizia

Recy Taylor non ha mai avuto giustizia e ha dovuto attendere 67 anni per avere, quanto meno, le scuse ufficiali dalle istituzioni. Un caso, il suo, riflesso di tempi nemmeno troppo lontani, quelli dell’America segregazionista della Jim Crow laws in vigore sino al 1965. Leggi foriere di violenze di cui lei è stata vittima e testimone vivente, sino a qualche giorno fa.

Sino al 29 dicembre scorso, quando la signora Taylor è morta a 97 anni lasciando un testamento, non solo morale, ai posteri, di cui è stata data lettura domenica sera da Oprah Winfrey. Il discorso ai Golden Globe della regina dei talk show, osannato da liberal e illuminati del centrosinistra come una sorta di discesa in campo per Usa 2020, ha avuto come protagonista proprio Recy. «Ha vissuto, come molti di noi, troppi anni in una cultura devastata dal potere brutale degli uomini. Per troppo tempo le donne non sono state ascoltate o credute quando hanno osato dire la verità su uomini oppressori e violenti», ha detto Winfrey, ripetendo come un mantra «ma il loro momento è arrivato, ma il loro momento è arrivato, ma il loro momento è arrivato».
Il momento atteso e mai arrivato da Taylor. Era il 1944 quando Racy, 24enne afro-americana, di ritorno a casa da una funzione alla chiesa di Abbeville, in Alabama, viene rapita e violentata da sei uomini, o forse sette, tutti bianchi. La cronaca di allora, riportata dalla Associated Press, racconta che la donna fu poi abbandonata sul ciglio della strada dai suoi aguzzini. Il «New York Times», in occasione della scomparsa della donna, racconta che il grand jury, composto solo da maschi bianchi, non giudicò gli autori della violenza colpevoli di stupro, e questo nonostante gli stessi avessero confessato la loro responsabilità sull’accaduto. Da allora sono trascorsi decenni, i segni della violenza sono rimasti indelebili sul corpo di Recy come cicatrici, rese più profonde dagli anni e dall’ingiustizia.
Un crimine rimasto impunito il suo, nonostante il mutare dei tempi, figlio di quella disobbedienza civile che, dieci anni dopo i fatti di Abbeville, si incarnerà in un’altra donna afro-americana, Rosa Park. Ovvero la prima paladina dei diritti civili, anche soprannominata la «madre del movimento per la libertà». L’eroina moderna che, rifiutandosi di cedere il posto sull’autobus a un bianco, diede inizio ad una delle più profonde rivoluzioni civili in fatto di uguaglianza sociale. Proprio Parks si fece carico per la Naacp (National Association for the Advancement of Coloured People), di investigare sullo stupro.
Taylor non ha mai smesso di manifestare il proprio sdegno e di pretendere scuse ufficiali. Nel 2010, in un’intervista all’Ap, Recy ha spiegato che probabilmente i suoi aguzzini erano morti, ma lei pretendeva ancora le scuse delle istituzioni, quelle che allora le negarono giustizia. «Vorrebbe dire molto per me, chi ha commesso quel crimine non lo può più fare». Le scuse arrivarono un anno dopo da entrambe le Camere dell’Alabama: «Questa deplorevole mancanza di giustizia rimane un motivo di vergogna per i cittadini dell’Alabama, la mancanza di una risposta da parte della legge è aborrevole e ripugnante, e per questo esprimiamo profondo rammarico per il ruolo svolto allora dal governo dello Stato».
La vicenda, raccontata nel libro «At the Dark End of the Street» di Danielle McGuire, e nel documentario «The Rape of Recy Taylor» di Nancy Buirski, è la storia di tante donne, come ha sottolineato Oprah nel discorso «Winfrey 2020». Col quale ha voluto implicitamente insignire Recy Taylor del titolo postumo di antesignana del «movimento per la libertà», ancor prima di Rosa Park. Spiegando che anche per lei «bisogna marciare, affinché non occorra mai più dire “Mee Too”».