La Stampa, 9 gennaio 2018
Alzheimer, stop alla ricerca. L’annuncio choc di Pfizer
L’annuncio è giunto attraverso le colonne del Wall Street Journal: la multinazionale farmaceutica Pfizer dice addio al sogno di trovare una soluzione alle malattie neurodegenerative. La scelta, stando a quanto filtra dal quartiere generale della company statunitense, è da ricondurre alla mancanza dei risultati attesi, a fronte dei sostanziosi investimenti affrontati negli ultimi vent’anni. «È una brutta notizia, ma non è un dramma: stiamo parlando della decisione di una sola azienda, non di tutte», dice Carlo Caltagirone, direttore scientifico della Fondazione Santa Lucia di Roma: uno dei massimi esperti italiani di malattie neurodegenerative. «La partita è lunga e complessa: siamo pronti a giocarla ancora, non sarà la scelta di Pfizer a far concludere le ostilità».
Malattie complesse
Gli scienziati italiani, pur potendo contare su risorse esigue, tutto vogliono: meno che sfilarsi dalla contesa contro le malattie neurodegenerative, destinate ad aumentare nei numeri di pari passo con l’allungamento delle prospettive di vita. Nel complesso, si parla di condizioni che colpiscono oltre 70 milioni di pazienti nel mondo: Alzheimer, Parkinson, Corea di Huntington, sclerosi laterale amiotrofica, demenze cerebrovascolari e da corpi di Lewy le più diffuse. Uno spettro di malattie eterogenee – come i tumori, che non a caso alternano tassi di guarigione eccezionali ad altri di gran lunga migliorabili – per cui più volte nell’ultimo quarto di secolo s’è cantato vittoria con troppo anticipo: senza poi ottenere nelle sperimentazioni cliniche gli stessi risultati che avevano illuso al termine delle tappe precedenti della ricerca.
La realtà dei fatti è che per l’Alzheimer, che tra le malattie neurodegenerative è la più diffusa, non si è certi nemmeno di conoscere l’esatto identikit. «Sappiamo che è legata all’accumulo di una proteina tossica nel cervello, la beta-amiloide – prosegue Caltagirone -. Ma non possiamo escludere che siano anche altre le cause, da sole o in associazione, a concorrere all’insorgenza». Motivo per cui non è finora stato possibile mettere a punto una terapia trasversalmente efficace. «Ma diverse molecole sono comunque allo studio. Si tratta soprattutto di anticorpi monoclonali: l’auspicio è che possano darci gli stessi risultati che stanno dando nella terapia di tumori e malattie autoimmuni. Fermo restando che il funzionamento di alcuni farmaci che oggi consideriamo inefficaci potrebbe essere riabilitato, il giorno in cui arriveremo a conoscere il primum movens dell’Alzheimer». Tradotto: c’è bisogno di dare ossigeno alla ricerca, tanto di base quanto clinica. La prima rappresenta l’unica via da percorrere per far cadere i veli su queste malattie: ingombranti sia per i pazienti sia per i loro familiari. La seconda è necessaria per provare a curarle.
L’impegno degli altri
La scelta di Pfizer, già adottata un anno fa da Merck, non è confortante: soprattutto se giunta in una fase in cui la ricerca non pare in grado di prescindere dalla partnership tra pubblico e privato. Il problema, per dirla con Caltagirone, «è che ormai pure le aziende puntano ad avere risultati importanti in tempi brevi. Non è così però che si lascia il segno. Gli investimenti è giusto che siano mirati, ma ai ricercatori va dato il tempo per raggiungere un traguardo». Detto ciò, il dietrofront potrebbe comunque nascondere anche strategie più fini. «Ci sono altre aziende che stanno ottenendo risultati incoraggianti dalle proprie sperimentazioni ed è possibile che chi si smarca non voglia arrivare secondo al traguardo – ragiona Paolo Maria Rossini, responsabile della struttura complessa di neurologia del Policlinico Gemelli -. Ormai già da diversi anni è cambiato il paradigma: l’obiettivo realistico non è più curare tutti, ma individuare quanto prima chi è più a rischio di ammalarsi e intervenire rallentando la progressione del decadimento cognitivo». Procrastinare le fasi iniziali della demenza di appena cinque anni ridurrebbe l’onere dell’Alzheimer del 50%: con benefici misurabili per i pazienti, per le famiglie e per il bilancio della sanità pubblica. Ecco perché non è ancora giunto il momento di arrendersi.
Twitter @fabioditodaro