Affari&Finanza, 8 gennaio 2018
Tasse evase, fake news e privacy violata: l’anno zero della Silicon Valley
Il clima è cambiato per i colossi della Silicon Valley. Si è rotto qualcosa nel 2017 e la loro immagine ha cominciato a mostrare crepe evidenti sempre più profonde. Guardando all’anno appena concluso, vengono in mente le parole di Margrethe Vestager, la commissaria per la concorrenza in Europa nella Commissione Juncker. Davanti alla platea del Web Summit di Lisbona ai primi di novembre, diecimila persone raccolte all’Altice Arena, è stata cristallina: “I nostri valori sono semplici. Se hai successo sul mercato dovrebbe essere perché hai il miglior servizio o prodotto e non perché prendi delle scorciatoie, eludi le tasse e non informi le autorità su come stanno davvero le cose. È il caso di Apple e Amazon che non pagano le tasse, di Google che abusa della sua posizione dominante, di Facebook che si rifiuta di fornire dati alla Commissione quando gli vengono chiesti. Ma più di tutto, quel che mi preoccupa è cosa sta accedendo alla nostra società e alla nostra democrazia. Credo che queste piattaforme stiano sottostimando il potere che hanno. Non si tratta quindi di fermare l’innovazione, ma di permettere che l’innovazione esista davvero grazie a una vera competizione in un mercato equo e con regole uguali per tutti”. Gli applausi scroscianti che la Vestager ha raccolto, da un pubblico composto startupper e da addetti ai lavori, sono stati uno dei capitoli conclusivi dell’anno difficile per i giganti del Web. Mentre raccoglievano un successo dopo l’altro in borsa inanellando trimestrali record, basti pensare che le azioni di Amazon sono passate da circa 700 dollari a oltre 1100, facendo diventare Jeff Bezos l’uomo più ricco del mondo, e quelle di Apple da 115 a 175, hanno dovuto fronteggiare sul piano istituzionale e pubblico il peggior periodo della loro storia. Il primo segnale della crisi e anche dell’inadeguatezza sorprendete di questi giganti, sono state le elezioni presidenziali americane vinte da Donald Trump. Stando al suo angelo custode sui social Brad Parscale, quelle sono state le prime vere lezioni vinte grazie alle piattaforme digitali della Silicon Valley a forza di messaggi (e fake news) personalizzati verso gruppi di elettori profilati dagli inglesi di Cambridge Analytica e con l’aiuto dei 300 milioni di dollari in investimenti pubblicitari. “Il ruolo giocato dai big della rete come veicolo della propaganda politica di Trump fatta di messaggi spesso fasulli è ancora tutto da chiarire”, aveva commentato amaro Alec Ross, consigliere per il digitale di Hilary Clinton quando era Segretario di Stato durante la presidenza Obama. Lo avevamo sentito al telefono subito dopo la conferenza stampa di Mark Zuckerberg, quella di novembre del 2016. Il gran capo di Facebook aveva definito “una follia” l’ipotesi che le notizie bufala sparse attraverso il suo social network salvo poi rimangiarsi quelle parole dieci mesi dopo ammettendo di aver sottovalutato il fenomeno. “Chiese digitali” le definisce Bruce Sterling, o anche “un’era di neo feudalesimo digitale”. Sterling è un visionario lucido, estremo nei giudizi e affilato come un rasoio. Che questi colossi avessero ormai nelle mani un potere economico e una concentrazione delle informazioni mai accaduta nella storia lo aveva capito e scritto anni fa. Illuminante per certi versi il suo The Epic Struggle of the Internet of Things del 2014. Il quell’ambiente che Tom Wolf definirebbe di “radical chic digitali”, si sottolineava il cambio di direzione del vento dal 2010. Il saggio Tu non sei un gadget di Jaron Lanier, “padre” della realtà virtuale, è di quell’anno. Un atto di accusa nei confronti del nuovo dominio delle grandi compagnie del digitale che trasformano le persone in consumatori sotto dittatura. Dello stesso anno è Quello che la tecnologia vuole di Kevin Kelly, cofondatore di Wired. Nel 2011 Eli Pariser dà alle stampe The Filter Bubble dove tratta le prassi di Google e degli altri nell’applicazione dei filtri alle nostre ricerche per ritagliare su misura le risposte. Parliamo di centinaia di filtri che sui social e online hanno finito per cambiare quello che un tempo era il mondo libero della Rete tramutandolo in piccoli universi chiusi dove ci si confronta solo con quel che ci somiglia. E senza più diversità, in un’epoca che vede il declino verticale dei mezzi di informazione tradizionale, la polarizzazione e la frantumazione del tessuto sociale è un risultato conseguenziale. Quel che fa infuriare spesso è il tradimento delle origini dei colossi del Web. Il “non essere malvagio” nel primo codice di condotta dei dipendenti di Google e la missione di voler permettere a tutta l’umanità di accedere gratuitamente alle informazioni, il voler connettere il genere umano di Facebook, il “siate affamati e siate folli” che Steve Jobs prese in prestito dalla bibbia della controcultura californiana anni Settanta, il The Whole Earth Catalog che proprio Kelly aiutò a far crescere. «Nessuno di noi ha mai pensato che delle compagnie tecnologiche potessero diventare così potenti e così grandi», ha detto qualche mese fa Federico Faggin, creatore del primo microchip alla Intel. «Ai miei tempi una trimestrale record valeva più di cento milioni di dollari, non certo miliardi». E probabilmente non lo immaginavano nemmeno loro, i vari Zuckerberg, Brin e Page, Bezos e Cook. Quel potere è immenso e loro si comportano come regnanti di nuovi Stati che trattano alla pari con presidenti e primi ministri. Ma non sempre quel potere significa controllo. Malgrado la rivoluzione dell’intelligenza artificiale, sia Google sia Facebook si sono dimostrate incapaci di filtrare in qualche modo i contenuti veicolati dalle loro piattaforme. Ad Aprile, a Cleveland, Steve Stephens uccide in diretta su Facebook un anziano. Il video resta online per ben tre ore generando un’ondata di polemiche. A settembre si viene a sapere che i troll russi avrebbero operato su Facebook attraverso centinaia di account falsi e investendo in pubblicità circa 100 mila dollari. E la stessa cosa è accaduta su Twitter. A novembre scoppia lo scandalo di YouTube Kids: vengono scoperti finti cartoni sulla piattaforma video di proprietà di Google pieni di scene atroci e commenti di pedofili. Commenti che non vengono rimossi per settimane. Il tutto mentre dall’Europa arrivano le multe di Margrethe Vestager e dei suoi colleghi: a maggio la multa a Facebook per 110 milioni di euro per aver collegato gli account di Facebook e Whatsapp; a giugno quella a Google per 2,43 miliardi per abuso della posizione dominante; ad ottobre la sanzione per Amazon di 250 milioni per ripagare l’Unione europea di tasse non versate che segue quella da 13 miliardi consegnata ad Apple nel 2016. In patria Donald Trump intanto fa passare uno storico taglio delle tasse, con conseguente boom in borsa del Nasdaq, ma mette anche in discussione una delle grande vittorie della Silicon Valley durante i mandati di Barack Obama, ovvero quella della net neutrality. Con la prospettiva di dover pagare dazi alle aziende delle telecomunicazioni. «Se una compagnia petrolifera applicasse ricarichi del trecento per cento come fa la Apple, scenderemmo tutti in strada a protestare», aveva notato Niccolo De Masi, italo americano presidente della startup Essential fondata con Andy Rubin, creatore del sistema operativo Android a lungo ai vertici di Google. Ha ragione. Anche perché altre industrie, quelle “vecchie” che l’hi-tech ha messo in ombra come il settore delle automobili, si accontentano di margini ben più bassi attorno al dieci per cento. Il vero interrogativo ora è come reagirà la Silicon Valley nel 2018. Con una certezza: difficilmente basteranno i “non avevamo capito” mostrati nel 2017 né la pressione su governi e istituzioni che al massimo possono rimandare o mitigare l’inevitabile. «Le aziende hanno una responsabilità sociale. Soprattutto in un mondo sempre più interconnesso»: parola di Yancey Strickler, cofondatore di Kickstarter, il sito per la raccolta di fondi online per lanciare nuovi progetti. Ma fino ad ora non sembra lo abbiano ascoltato.