Il Dubbio, 6 gennaio 2018
Il successo della quarta stagione di Black mirror, la tecnica che si mangia l’anima
È insieme la più futuristica e la più Old Fashion delle serie tv e anche questo, forse, ne spiega il successo. Black Mirror,con quarta stagione disponibile da pochi giorni su Netflix, ricorda da vicino le grandi serie tv del passato, quelle in cui ogni episodio era compiuto in sé ma la continuità era garantita dall’omogeneità del taglio complessivo, dei temi trattati e della messa in scena, nonostante la presenza di occhi e regie diverse dietro la macchina da presa: Alfred Hitchcock presenta, per esempio, e soprattutto The Twilight Zone, in Italia Ai confini della realtà, che di Black Mirror è certamente modello.
Rod Serling, genio ribelle della Hollywood alle prese con il piccolo schermo alla fine dei 50, aveva due passioni: la fantascienza intesa non come esercizio di sbrigliata fantasia ma come evoluzione plausibile del presente e una critica sociale acuminata. Le coniugò in quella serie tv che ancora fa testo e alla quale si è ispirato lo sceneggiatore, giornalista, conduttore e produttore inglese Charles Brooker, classe 1971, per la serie che spopola sugli schermi ai tempi nostri e che mette in scena, proprio come faceva Rod l’Arrabbiato, quello che forse ci aspetta dietro il prossimo angolo dello sviluppo tecnologico, usando la non troppo immaginifica visione del mondo di domani per bersagliare quello di oggi. Del resto Black Mirror non significa, “specchio nero”. È la definizione usata dagli anglo- sassoni per connotare lo schermo del pc quando si oscura all’improvviso, permettendo di cogliere solo il riflesso scuro del volto di chi lo stava adoperando. Forse la tendenza ad addentare la società presente, dalla politica allo spettacolo e persino al ruolo del lavoro, era più marcata nelle due prime serie, entrambe di tre episodi più uno speciale natalizio, trasmesse da Channel Four tra il 2011 e il 2014. Poi la produzione è stata presa in carico da Netflix e i 12 episodi successivi, divisi in due stagioni, la terza trasmessa nel 2016 e quella appena diffusa, si sono in una certa misura “americanizzate”, hanno un po’ perso la valenza di satira corrosiva e grottesca degli esordi.
In compenso però, soprattutto in quest’ultima stagione ma in buona parte anche in quella prece- dente, Black Mirrorha ristretto e di conseguenza approfondito e problematizzato il campo preso in considerazione. Quasi tutti i nuovi episodi si misurano con un tema specifico: la realtà virtuale, la possibilità di “estrarre” una parte delle memorie, delle esperienze umane, dei sogni e poi “sganciarle” dal soggetto e dotarle di una specie di “quasi- vita” in sé. Il tema era già stato affrontato sia nelle stagioni di Channel Four che nella prima su Netflix. L’episodio Torna da me, del 2013, raccontava la “restituzione” di un marito appena morto alla giovanissima sposa grazie alla somma di tutto quel che di se stesso aveva consegnato nel corso del tempo ai social, ed era tra i più tristi e strazianti. Nel 2016, San Junipero,considerato il migliore episodio in assoluto, descriveva una specie di paradiso virtuale nel quale i morti possono scegliere di continuare a esistere almeno nella loro proiezione tecnologica ed era invece pieno di speranza.
Gli episodi della nuova stagione affrontano quasi tutti lo stesso tema, e lo fanno da diversi punti di vista. La sola eccezione è Metalhead, un piccolo film che in effetti ha poco a che spartire non solo con questa stagione ma con l’intera serie e che forse per questo è risultatosgraditissimo al pubblico. È la storia di una donna che, in un futuro prossimopost- apocalittico, deve sfuggire a una cane- robot assassino. Non c’è nessunaspiegazione. Non si sa cosa sia successo al mondo né cosa abbia scatenato i cani assassini, la cui determinazione omicida è degna di Terminator. L’anomalia rispetto a praticamente tutti gli altri episodi, sottolineata dalla scelta di girare in bianco e nero, spiega probabilmente la reazioni negative.Metalhead è in realtà un piccolo capolavoro, teso come il Duel di Spielberg, più agghiacciante di qualsiasi altro film sullo scontro tra uomini e macchine, proprio perché non spiega e quindi non rende razionalmente comprensibile l’ostilità totale dei cani- killer. Non è neppure vero che manchi l’elemento che collega il mondo devastato dell’episodio con la realtà di oggi. I cani assassini sono quasi identici ai robot canini già effettivamente prodotti dalla Boston Dynamics...
Gli altri episodi della stagione, invece, insistono tutti su qualche aspetto di realtà virtuale e sono tutti in debito con Philip K. Dick, il grandissimo autore che ha letteralmente costruito da solo le basi dell’immaginario sci- fi contemporaneo e che probabilmente è andato anche oltre, vedendo in anticipo quello che viviamo oggi e quello che ci aspetta. L’episodio più significativo è probabilmente l’ultimo della stagione, Black Museum, anch’esso in un certo senso anomalo perché composto da tre storie apparentemente distinte, raccontate a una turista dal gestore di un museo degli orrori costruito nel deserto.
Sono orrori di domani, non la solita roba gotica. C’è il casco che permette di vivere sulla propria pelle le sensazioni fisiche provate da un’altra persona, e può capitare che ci si innamori della sensazione che regala il dolore di un altro. C’è il dispositivo che permette di trasferire in un altro involucro, una persona o magari un giocattolo, tutti i dati e il vissuto di una persona in coma. C’è la possibilità di registrare le sensazioni di un condannato a morte nel momento fatale, così da farlo poi rivivere per la gioia degli spettatori migliaia di volte.
In apparenza un po’ affastellate e meno “realistiche” del solito, le tre atrocità in questione sono invece coese e rappresentano il coronamento perfetto di questa stagione della serie, il lato oscuro della visione positiva illustrata in San Junipero. Illustrano la possibilità che progressivamente lo sviluppo della tecnica permetta di mettere le mani, e a volte le grinfie, su quella che un tempo veniva definita l’“anima”.