L’Economia, 8 gennaio 2018
Ecco come doveva andare. Tutti gli errori dei guru
L‘Analisi economico-finanziaria non è una scienza esatta. Perché deve misurarsi con un groviglio di molte variabili interconnesse ed eventi inaspettati, senza contare gli umori instabili degli investitori. Ma nel rileggere le pagine scritte un anno fa da economisti e case d’investimento sulle prospettive dei mercati finanziari del 2017, ci si imbatte in una serie di errori così ampia, da rendere talvolta sottilissima, all’apparenza, la distanza tra previsioni di mercato e arte divinatoria.
Prendiamo l’elezione a sorpresa di Donald Trump alla guida degli Stati Uniti nel novembre 2016. Per Simon Johnson, ex capo economista dell’Fmi e docente del prestigioso Mit, avrebbe dovuto «causare un crollo dei mercati azionari». Invece le Borse globali hanno consegnato un rally del 20%. A sua volta, commentando l’esito del voto presidenziale americano, il premio Nobel Paul Krugman profetizzava: «Molto probabilmente stiamo per assistere a una recessione globale». Al contrario, l’economia del pianeta è cresciuta del 3,6% nel 2017, in accelerazione di quasi mezzo punto sull’anno precedente. Proprio un’errata interpretazione dell’impatto che la «Trumponomics» avrebbe avuto su attività economica e appetito degli investitori ha tratto in inganno molti analisti. Portandoli a sbagliare (e non di poco) le coordinate di riferimento.
Il paradigma
A fine 2016, infatti, era diffusa la convinzione che gli stimoli promessi dal nuovo presidente Usa potessero innescare un meccanismo a catena sulle aspettative di crescita e inflazione: la Federal Reserve avrebbe optato per una stretta monetaria più energica, favorendo un apprezzamento del dollaro. Oltre un terzo dei grandi gestori interpellati nel sondaggio mensile di BofA Merrill Lynch a dicembre del 2016, citava la scommessa rialzista sul biglietto verde come la più affollata del momento. Nello stesso periodo Goldman Sachs segnalava la posizione lunga sul dollaro contro l’euro (e la sterlina) in cima alla top ten delle raccomandazioni d’investimento per il 2017, ipotizzando che la traiettoria divergente delle politiche monetarie sulle due sponde dell’Atlantico, e i rischi politici impliciti nel fitto calendario elettorale europeo, avrebbero spinto il cambio con la moneta unica alla parità, equivalente a un guadagno del 5% per il dollaro.
Sulla stessa lunghezza d’onda, del resto, si collocavano quasi tutti gli operatori: Schroders, Barclays, Natixis, M&G e Amundi tra gli altri, attribuivano al biglietto verde una posizione di forza relativa. L’esatto opposto di quanto si è verificato nei successivi 12 mesi, con la moneta unica capace di guadagnare 14 punti percentuali contro la divisa americana.
Azioni
Sulla direzione dei listini, va detto, gli operatori avevano ragione, prevedendo – come ogni anno, del resto – un andamento positivo. Hanno sbagliato però le misure. Convinti, in larga maggioranza, che le valutazioni tirate di 12 mesi fa, specialmente negli Usa e l’atteggiamento meno indulgente della Fed avrebbero azzoppato le performance di borsa. In base ai prezzi obiettivo fissati per la fine del 2017 dalle banche d’affari l’S&P500 avrebbe dovuto terminare l’anno sostanzialmente piatto (Credit Suisse), o in leggero rialzo, nella forbice tra il 2,7% immaginato da BofA Merrill Lynch e il 5% di Deutsche am. Com’è andata? Wall Street ha sfiorato il 20%, ottenendo due volte e mezza i guadagni dell’Euro Stoxx 600, che molti gestori – Russell Investments per esempio – davano per favorito, insieme a Tokyo. Se si guarda al Vecchio Continente, però, i maggiori abbagli riguardano il passo della crescita. Quasi tutti gli economisti, infatti, avevano sottostimato la solidità della ripresa in Eurozona: Ubs e Invesco, per esempio, prevedevano un Pil in espansione dell’1,3% e dell’1,5% nel 2017, molto meno del 2,2% stimato oggi dalla Commissione europea.
Emergenti
Molti gestori sono inciampati anche sugli emergenti. Sia sul fronte macro – la crescita cinese ha sorpreso al rialzo e dovrebbe attestarsi al 6,8% nel 2017, tre o quattro punti decimali in più rispetto alle stime dell’Fmi e di molti economisti —, sia in materia di mercati finanziari. Per Jp Morgan am i Paesi meno sviluppati avrebbero incarnato le difficoltà maggiori per gli investitori nel 2017, a causa di un dollaro più forte e del contestuale cedimento delle materie prime. Preoccupazione condivisa, in parte, anche da Fidelity. State Street, cautamente ottimista, si spingeva a ipotizzare una crescita del 6% per le azioni dei mercati emergenti nel 2017. Bersaglio mancato: l’Msci emerging markets ha conquistato il gradino più alto del podio tra i maggiori listini azionari, con un balzo del 34%. E anche nel reddito fisso i bond dei Paesi meno sviluppati hanno dato ottimi risultati. Setacciando le previsioni di mercato di un anno fa, si scopre invece che molti analisti avevano anticipato correttamente la dinamica del petrolio, in risalita oltre i 60 dollari al barile e la performance deludente dei governativi europei. Magra consolazione. E l’oro? Anche in questo caso gli operatori avevano preso male la mira: 12 mesi fa in molti davano il metallo giallo tra 1.200/1.250 dollari l’oncia. È salito sopra quota 1.300, guadagnando il 13,2%, in dollari.