L’Economia, 8 gennaio 2018
Protezione: i nuovi muri d’ europa li trovi al supermarket
Chi ricorda la noia e l’inedia che si provava ai tempi dell’autarchia fascista tutte le sere all’ora di cena – sempre le stesse pietanze, sempre di meno – sorriderà alle baruffe di oggi. Chi si è fatto raccontare quegli anni, può ripensarci in questi mesi per gettare uno sguardo diverso sui subdoli muri che stanno crescendo fra Paesi europei: il nazionalismo gastronomico, l’ambigua bandiera della tutela della salute brandita quasi sempre e solo per escludere dagli scaffali dei supermarket gli alimenti degli altri, o magari per copiarli impunemente. Come sempre quando serpeggia il virus del protezionismo, pochi restano immuni al contagio. E pochi innocenti: non i governi di Matteo Renzi e Paolo Gentiloni a Roma, né il nuovo potere europeista di Emmanuel Macron a Parigi, né quello, a parole liberista, di Theresa May a Londra.
Ricorsi e cordate
Perché quando una scintilla di sciovinismo si accende nei mercati dei prodotti agricoli, allora quasi tutti diventiamo piromani allo stesso tempo. Indistinguibilmente vittime e carnefici, agitati dai venti del populismo e prede politiche dei cartelli produttivi: quelli delle associazioni di piccole imprese in Italia; quelli delle multinazionali dell’alimentare o della grande distribuzione in Francia o nel Regno Unito.
Già nel 1931 Benito Mussolini aveva dichiarato di aver vinto la «battaglia del grano» – l’Italia era finalmente autosufficiente – e il resto è storia. Fa dunque uno strano effetto che un governo di tutt’altro segno, in una democrazia ormai matura, riapra il libro del protezionismo proprio alla stessa pagina oggi. Dal 13 dicembre scorso l’Italia è oggetto di un ricorso alla Commissione Ue da parte di FoodDrinkEurope, la cordata europea dei produttori di cibi e bevande, oltre che delle pressioni del Canada all’Organizzazione mondiale del Commercio. Sotto accusa, un insieme di norme nella stessa direzione: restringere lo spazio di mercato delle produzioni estere, anche degli ingredienti di base, in particolare nella pasta di grano duro. Le norme, approvate l’anno scorso per iniziativa del ministro delle Politiche Agricole Maurizio Martina (Pd), applaudite dalla Coldiretti con il suo milione e mezzo abbondante di iscritti, sono la sanzione di un’impossibilità.
La legge prevede qualcosa che sembra irrealizzabile. Non solo i vari prodotti impacchettati devono precisare nell’etichetta che escono da uno stabilimento italiano, se è il caso. C’è un passaggio di più: in teoria, per l’esplicita soddisfazione di Coldiretti, va specificato sulla confezione della pasta italiana che è stata prodotta con grano duro coltivato all’interno del Paese. «Ius soli» cerealicolo.
Alla base di una norma del genere si trova un caso di «fake news», secondo il quale il grano importato dall’estero – in particolare, dal Canada – sarebbe di cattiva qualità. Vecchio, ammuffito, contaminato. Peccato però che tutte le analisi svolte regolarmente dal ministero della Salute all’arrivo della merce nei porti italiani indichino il contrario.
In particolare il grano canadese, per l’Italia prima fonte estera d’approvvigionamento con circa 700 mila tonnellate all’anno, ha sempre mostrato livelli di contaminazione da tossine bassi: molto sotto i limiti di legge europei.
L’aspetto paradossale in questa drôle de guerre è che l’industria della pasta italiana – un settore che esporta il 45% della produzione, per 1,2 miliardi di euro l’anno – non può funzionare senza grano comprato all’estero. Mussolini può darsi pace nella sua tomba a Predappio, non ne faremo mai abbastanza. Il fabbisogno di grano duro del Paese è di 5,7 milioni di tonnellate l’anno, ma nel
2016 se sono prodotte solo 4,4 milioni, mentre il resto è arrivato da fuori: Canada, Stati Uniti, Grecia e Kazakistan i primi fornitori; è anche grazie a loro che i grandi marchi italiani di spaghetti o penne continuano a crescere sui mercati mondiali.
Ora questa «battaglia del grano» naturalmente si sposterà a Bruxelles. A primavera scorsa il governo aveva già presentato la bozza della norma, raccogliendo subito l’opposizione di 11 Paesi. Quindi l’ha ritirata per poi approvarla, sapendo di violare tutte le regole, senza darne nuova notifica all’Unione europea. Quando poi i pastai italiani hanno fatto ricorso al Tar del Lazio, i giudici l’hanno respinto «per l’importanza attribuita dai consumatori italiani alla conoscenza del Paese d’origine e/o del luogo di provenienza dell’alimento e dell’ingrediente primario». Argomento che di questi tempi suona degno di una democrazia «gestita» d’Europa orientale, come se il (presunto) volere del popolo facesse premio sul diritto europeo o la logica economica.
Luca Bucchini di Hylobates, un consulente del settore, sottolinea che non sarebbe interesse dell’Italia sfidare e indebolire la credibilità delle regole europee e della Commissione Ue che deve farle rispettare.
Non lo sarebbe oggi perché, nel protezionismo alimentare, l’Italia è tanto vittima quanto carnefice – magari più la prima che la seconda cosa – e avrebbe dunque bisogno di un arbitro forte che la difenda. A maggior ragione perché l’export italiano di cibi e bevande è arrivato a valere 40 miliardi nel 2017 (l’import circa 43) in un’industria che fattura in tutto circa 135 miliardi, ossia l’8% del reddito nazionale. Senonché Francia e Regno Unito, che insieme pesano per quasi il 20% delle esportazioni di agrifood, stanno alzando subdole barricate. A tutto vantaggio di grandi catene di supermarket britanniche come Tesco e Sainsbury o di grandi produttori di latticini francesi come Danone.
Il peso delle multinazionali
L’anno scorso per esempio in Francia è entrato in vigore un sistema chiamato «nutri-score» a cinque colori, dal verde intenso (molto consigliato per la salute) al rosso scuro («da evitare»): ovviamente in base ai contenuti di grassi, sali, zuccheri. Come sui pacchetti di sigarette, il semaforo è obbligatorio e dovrebbe indicare la presunta nocività di ogni singolo prodotto, senonché i «produits du terroir» francesi (i prodotti tipici locali, come i formaggi) sono esentati. Dunque la feta greca o la mozzarella vengono marchiate in rosso scuro negli scaffali dei supermarket – a spaventare il consumatore – mentre latticini magari ben più grassi ma francesi no. Ciò poi consente a grandi soggetti industriali come Danone di mettere sul mercato transalpino alimenti con la stessa denominazione, ma con meno grassi e senza semaforo rosso, in modo da spiazzare i produttori originali. Con la feta è già successo. Ora persino i produttori tedeschi di insaccati sono su tutte le furie.
Il «nutri-score» del resto è controverso anche in Francia: nel 2016 quattro scienziati hanno abbandonato il comitato di esperti costituito dal governo per crearlo, denunciando interferenze dell’industria alimentare.
Accade anche in Gran Bretagna, con un sistema a semafori di tre colori su ogni alimento. E anche lì è evidente l’uso delle avvertenze per scavalcare i produttori originali dei prodotti esteri. Tanto Tesco che Sainsbury, le due grandi catene di supermarket del Regno, offrono per esempio un «parmesan» con poche luci rosse perché scremato. Resta dubbio che il sistema a semafori possa funzionare come nel caso del tabacco. La salubrità di un alimento dipende infatti soprattutto dall’equilibrio complessivo di ogni dieta. Del resto gli alimentari italiani, spesso marchiati in rosso in Francia e Uk, provengono dal Paese al primo posto mondiale della classifica Bloomberg per aspettativa di vita e salute pubblica (anche per fattori come colesterolo, zuccheri nel sangue e lotta all’obesità). Difficile sostenere che la dieta italiana sia nociva.
Eppure, per quanto illogico, il protezionismo alimentare in Europa non si fermerà. Al contrario, si sta allargando e può fare danni seri. Quando Parigi nel 2016 ha imposto «etichette d’origine» sulla nazionalità del latte usato nei formaggi (mossa poi copiata dall’Italia), l’export belga di latticini verso Parigi è crollato del 17%. La Commissione Ue, debole e disperatamente in cerca di alleati nelle capitali, non riesce più a reagire.
I politici nei singoli Paesi sono messi alle corde dall’ondata populista che chiede «tutele» per i cittadini e dai cartelli di produttori, forti più che mai. In mezzo ci sono i consumatori e una certa idea d’Europa come società aperta, alla quale viene mostrato il semaforo rosso.